L a proposta della Lega di imporre alle radio una quota fissa di musica italiana non è cosa nuova. Il tema torna ciclicamente sul tavolo, e non solo da destra: nel novembre 2017 era stato l’allora ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, a fare un’apertura in questo senso. “C'è una cosa che la nuova legge consente, una delle norme più nascoste, è immaginare come possiamo prevedere quote di obbligatorietà di trasmissione della musica italiana”, aveva detto Franceschini intervenendo alla Milano Music Week. Poi aveva aggiunto: “In Francia ci sono quote per le radio. Noi vedremo”.
Cosa dice la proposta della Lega
Dal 2017 non se ne parlò più. Fino a oggi, quando Alessandro Morelli, presidente della Commissione Trasporti e Telecomunicazioni della Camera ed ex direttore di Radio Padania si è posto a capo di una proposta di legge sulle “Disposizioni in materia di programmazione radiofonica della produzione musicale italiana”.
La proposta prevederebbe che le radio italiane, tanto i network privati quanto la Rai, riservino almeno un terzo della loro programmazione alla “produzione musicale italiana”. In più, una quota “pari almeno al 10 per cento della programmazione giornaliera della produzione musicale italiana” dovrebbe essere “riservata alle produzioni degli artisti emergenti”. "L'auspicio è quello di tutelare la cultura italiana. 'Non sono solo canzonette', la musica sono momenti, luoghi, posti, cibo, cultura, un po' tutto”, ha detto Morelli ad Agorà su Rai Tre. "Dall'estero l'Italia è vista come la capitale della cucina, dell'ambiente - dalle Alpi alle Dolomiti, dalla Sicilia alla Sardegna -, dei monumenti, ma ci dimentichiamo dell'importanza della nostra musica. Se escludiamo la musica americana, la musica italiana è quella che ha conquistato i 5 continenti", ha aggiunto.
L’idea non è recente: in passato, ricorda Il Giornale della Musica, “nei momenti di massimo splendore, il regime fascista arrivò a proibire dai palinsesti la musica di musicisti ‘ebrei e negri’. In realtà, ambizioni autarchiche e protezionistiche sulla produzione musicale nazionale affiorano ciclicamente anche nella storia della Repubblica. Lo stesso Sanremo nasce, nel 1951, con l’obiettivo di supportare la canzone italiana contro “l’influsso della musica popolare afro‐americana e ispano‐americana”.
Chi è a favore
La proposta di Morelli ha incontrato subito il plauso di Al Bano che ha commentato: “Solo una canzone italiana su tre è poca cosa. Almeno sette su dieci!”. Poi ha aggiunto: ”Bisogna fare come in Francia dove le radio trasmettono il 75 per cento di musica nazionale e il 25 per cento di musica straniera. Occorre tutelare di più la nostra tradizione, come fanno gli altri Paesi”. In realtà in Francia la quota destinata agli artisti francesi è del 40%.
Di sicuro sono favorevoli all’idea di quote azzurre nella musica il cantautore Eugenio Finardi, Piero Pelù, Piotta e altri artisti che nel 2013 avevano firmato la campagna lanciata dagli Amici della Musica e dal Mei – Meeting delle Etichette Indipendenti su intervento del cantautore Mario Lavezzi all’ultimo Mei 2.0 di Faenza. E si è già detto concorde Giordano Sangiorgi, Presidente del MEI che cinque anni fa promosse la campagna.
Ma servono davvero le quote azzurre?
Il parere degli addetti ai lavori è che la misura sarebbe inutile. Secondo Enzo Mazza, presidente della Fimi, la sigla che raccoglie le etichette discografiche presenti in Italia, “la percentuale di canzoni italiane nel mercato nazionale supera già il 50%”. A conferma delle parole di Mazza arriva Radiomonitor che ha elaborato la classifica Radio Airplay Top 100 of The Year 2018 analizzando i dati rilevati dal primo gennaio al nove dicembre 2018, ponderando il numero dei passaggi radio registrati da ciascun singolo e dalle relative versioni, con i dati di ascolto delle emittenti per quarto d’ora e per tipo di giorno (fonte dati audience: TER – Tavolo Editori Radio).
Dai dati forniti da Radiomonitor si evince che, in Italia, la musica di casa nostra e quella internazionale in classifica praticamente si equivalgono: i primi cento posti della chart sono divisi quasi equamente, 51 a 49 per le canzoni italiane”. Gli artisti più presenti risultano essere Annalisa, Cesare Cremonini, Jovanotti e Thegiornalisti, ognuno con tre diversi singoli. Delle tre case discografiche major, Universal si aggiudica il primato, registrando un market share del 35,46%, seguita da Warner (22,23%) e Sony (19,84%). La bresciana Time Records risulta invece la migliore indipendente dell’anno (3,61%), seguita da Carosello (3,55%) ed Energy Production (3,33%).
Ecco la top ten:
- 1 – Boomdabash & Loredana Berté – “Non ti dico no”
- 2 – Mihail – “Who You Are”
- 3 – Luca Carboni – “Una grande festa”
- 4 – David Guetta & Sia – “Flames”
- 5 – Alice Merton – “No Roots”
- 6 – Takagi & Ketra feat. Giusy Ferreri – “Amore e Capoeira”
- 7 – Alvaro Soler – “La Cintura”
- 8 – Negramaro – “La prima volta”
- 9 – Jovanotti – “Le Canzoni”
- 10 – Maroon 5 feat. Cardi B – “Girls Like You”
Per Mazza, poi, il caso della Francia non è da prendere ad esempio: “La condivisione di scenari e strategie è da preferire alla imposizione normativa”. "In Francia esiste una legge che impone alle radio di trasmettere il 40% di musica francese, ma non fa menzione degli artisti emergenti", dice Mazza. ”Il risultato è che 4 canzoni su dieci sono sì francesi, ma sono sempre le stesse”. Secondo Mazza il problema da affrontare non è quello delle percentuali, ma di far emergere le nuove produzioni.
"Nel corso dell’anno escono centinaia di opere prime e i fenomeni nuovi – trap e rap – stanno modificando il mercato e portano a una costante salita in classifica di nuovi artisti di cui le radio quasi non si accorgono. C’è uno scollamento tra media e radio da una parte e le classifiche dall'altra. Ci sono artisti che sono esplosi, ma non sono mai passati in radio, come Salmo con l’ultimo album o Sfera Ebbasta: fenomeni che si propagano grazie a passaparola, social e streaming".
L’idea delle quote - si legge sul sito “Il Giornale della Musica” - “se applicata all’attuale panorama della radiofonia senza ulteriori correttivi, è infatti semplicemente assurda. Al momento, la maggior parte dei network radiofonici (Rai compresa) ha ridotto al minimo il ruolo del selezionatore e del “fattore umano”: di fatto – come è facile rendersi conto ascoltando qualunque stazione – la programmazione è ampiamente basata sulla rotazione semi-automatica dei brani in classifica, la cui popolarità è generata in un circolo vizioso dalla stessa rotazione (che produce e massimizza i ricavi).
Dietro la possibilità di un brano di accedere ai palinsesti radiofonici (salvo alcune rare isole felici) c’è sempre l’azione di un grosso gruppo editoriale, dietro l’acquisto di pubblicità o direttamente in forma di cambio-merce sui diritti (molte radio italiane detengono quote delle edizioni di alcuni artisti, e li programmano generando un profitto). In questo scenario, le “quote italiane” rischiano di rendere più ricchi i ricchi, e non sembrano destinate ad aiutare in alcun modo la produzione nazionale, meno che mai quella di qualità”.
Contrario alla proposta così com’è è anche Lorenzo Suraci (Presidente RTL 102.5) che con i suoi 8,4 milioni di ascoltatori al giorno, certificati dall’ultima ricerca del Tavolo Editori Radio, RTL 102.5 è di gran lunga l’emittente radiofonica più ascoltata in Italia. “Su RTL 102.5 – dichiara Suraci – diamo spazio a tutti gli artisti e la musica italiana è sempre molto presente in palinsesto con percentuali importanti. In senso assoluto non è concepibile dare obblighi e imposizioni editoriali, a maggior ragione quando si parla di realtà private che non godono di alcun tipo di finanziamento statale”.