M ichele Monina è uno dei critici musicali più influenti in Italia, certamente uno dei più letti. Da qualche anno - da qualche mese in maniera decisamente più incisiva e mirata - Monina ha fatto venire a galla un problema. Meglio, la declinazione discografica di quello che secondo lui è un problema evidente: l’assenza ingiustificata nel sistema musica di donne. Una vera e propria battaglia, la sua, rinnovata ogniqualvolta le più importanti manifestazioni musicali italiane hanno tenuto da parte le artiste dal cast.
Una fissazione, suffragata da numeri: "Nelle ultime due edizioni di Sanremo - aveva dichiarato Monina sempre ad Agi a gennaio - ci sono stati, su circa 90 artisti, tra solisti, duetti, terzetti e band, messi tutti insieme, 80 uomini e 10 donne, ma non è tutto: pochissime le conduttrici (appena tre nel nuovo millennio: Raffaella Carrà nel 2001, Simona Ventura nel 2004 e Antonella Clerici nel 2010) e non è mai stata chiamata una donna a ricoprire il ruolo di direttore artistico di una manifestazione culturale che l’anno prossimo compirà 70 anni d’età, che sono tanti, non è credibile sia sempre stata una casualità".
Poi è stata la volta del Concertone del Primo Maggio di Roma, “nel cast - scrive Monina sull'Linkiesta - su 31 artisti saliti sul palco appena quattro donne, nessuna solista, tutte all’interno di band”.
Un trend che ha portato il critico, già dalla prima edizione del Sanremo di Baglioni, a coniare e riproporre l’hashtag #lafigalaportoio, per promuovere un’iniziativa chiamata Anatomia Femminile, in cui da spazio sulle sue pagine social, così come in eventi organizzati ad hoc, a tutte quelle artiste snobbate dal mercato musicale.
Da ultimo, Monina a tirato in causa il tour estivo di Jovanotti, il Jova Beach Party, più di un semplice tour in realtà, un festival itinerante, una sorta di Lollapalooza in salsa italiana, dove il “ragazzo fortunato” di tappa in tappa ospiterà colleghi artisti, alcuni famosi, altri molto meno, la maggior parte, comunque, uomini; le quote rosa in questo senso si fermano a 3, gli ospiti, in totale, saranno circa 300, dice il critico: “Loro non risponderanno, a me non ha mai risposto nessuno, nonostante questa cosa è abbastanza evidente ed è diventata di dominio pubblico. Anche Jovanotti si è ben guardato dal rispondermi”.
Ma a parte i dati lei ha fatto una riflessione più approfondita sulle motivazioni che hanno portato a questa situazione?
“Beh, riguardo il Primo Maggio, la colpa è di chi ha organizzato il Primo Maggio, se di colpa si può parlare. Punto. Non è il sistema, perché il sistema è senza nomi e senza facce, qui di volta in volta ci sono delle persone che stabiliscono. Quello che io ho detto più volte e sono convinto, conoscendo gli interlocutori, è che in generale nessuno di loro è palesemente sessista. Il che è peggio, perché significa che è una tara culturale. Non avere la sensibilità di capire che c’è un problema, significa che per te un problema non c’è, quando invece c’è”.
In quell’occasione Massimo Bonelli ha risposto che diverse cantanti di alto livello, quattro per la precisione, erano state chiamate ma nessuna di loro era disponibile. Ambra Angiolini, conduttrice del Concertone, punzecchiata sull’argomento, ha risposto a tono: “Se vogliamo parlare di donne, parliamo della parità salariale, delle difficoltà di fare un figlio e mantenere il proprio posto: queste mi sembrano questioni serie. E del resto ci sono dei numeri che parlano: su mille giovani artisti iscritti al contest del Primo maggio si sono presentate 90 donne, più del 90 per cento sono uomini, questa è la fotografia della realtà. Ma è una realtà che c'era prima, il Primo maggio è l'ultimo anello di una catena produttiva, non è certo responsabile di quello che purtroppo ancora non succede nella discografia”.
Monina, che riponde ad Ambra e Bonelli?
“Ma non è vero, attenzione, è questo il punto. La risposta di Bonelli 'abbiamo convocato delle big che ci hanno detto di no' (all’inizio erano quattro, poi sono diventate dodici, a seconda di chi parlava) non è reale. Io vivo in questo ambiente e del femminile sono diventato referente, sono in contatto, non dico con tutte le cantautrici, perché è impossibile, ma con una fetta piuttosto consistente di loro, e queste famose dodici non le ho trovate. E vi garantisco che quelle che potevano essere lì le conosco tutte, quindi significa che non è vero. Il problema è che non c’hanno proprio pensato e non perché non ci sia un mercato. Faccio un esempio, in questo momento io ho in mano il cd di Eman, chi è Eman? Eman è più di Mimosa Campironi, di Patrizia Laquidara, di Roberta Giallo, di Francesca Incudine…?
Francesca Incudine ha vinto nello stesso anno il Tenco e il Bianca D’Aponte, perché non era lì e invece c’era Eman? In virtù di cosa c’era Eman? Un errore molto grave che ha commesso Ambra è quello di aver detto “Questa è la fotografia del mercato”, non è vero, perché Eman non vende più dischi di Francesca Incudine, e poi il Concerto del Primo Maggio non è il Festivalbar, non lo è mai stato e non lo deve essere. È un concerto organizzato da Massimo Bonelli di ICompany per conto dei sindacati. Se i sindacati non colgono che in questo momento nel settore musicale, che è una filiera professionale, una cantautrice non viene intercettata perché nessuno pensa che esista anche il femminile, questo è un problema serissimo. Diverso è il caso di Jovanotti, che è un privato che ha deciso di organizzare un festival che porta il suo nome, quindi se lui decide che debbano essere tutti maschi nessuno gli può dire niente, è una cosa privata, legittima, ci mancherebbe, ma io mi sono sentito di segnalarglielo pubblicamente”.
Perché non esiste una Gazzelle donna, una Calcutta donna, una band come i Thegiornalisti al femminile?
“Perché siamo un paese sessista. Punto. Non è che c’è un’altra possibilità. Uno come Calcutta, grassottello, che si presenta col k-way, il cappellino e la barba sfatta, al femminile non sarebbe possibile. Prima di tutto perché nessuna che avesse le fattezze, girate al femminile, di un Calcutta, penserebbe di fare la cantante, perché da noi le cantanti devono fare i conti anche con l’estetica. Da noi il sessismo parte prima, perché se sei troppo bella non vai bene perché il pubblico ti darà della zoccola, se sei troppo sciatta non vai bene perché non sei presentabile. Esiste un Guccini al femminile? Cioè uno che si può permettere di basare la sua musica quasi esclusivamente sui testi, presentandosi in quel modo lì, con la r moscia…? No”.
Però una volta c’erano e il pubblico le seguiva.
“Credere che il pubblico ascolti quel che vuole è una leggenda metropolitana. Te su Spotify non ascolti quello che vuoi, ascolti quello che ti fanno ascoltare. Una canzone su tre passa dalle playlist, quindi il 33% di quello che ascolti lo decide una persona in un ufficio, e in tutti i casi la musica che gira la decidono le case discografiche, e a capo di tutte le case discografiche in Italia ci sono uomini, non ce n’è una che abbia una donna come presidente o amministratore delegato. Neanche una. Né major, né indipendenti. E se ci pensi le uniche due discografiche di rilievo che ti verranno in mente sono Caterina Caselli e Mara Maionchi, che sono note prevalentemente per essere due donne che hanno un carattere da uomo. Aggressive, modi molto duri, spigolose”.
Che mondo è allora quello della discografia?
“Questo è un mondo sessista, non lo può dichiarare, perché l’arte non dovrebbe essere né razzista, né sessista, ma lo è profondamente. Al punto che quando glielo fai notare o ti danno del vaneggiatore o si arroccano nel dire “eh però il mercato…”, ma il mercato de che? Molte delle cantautrici che conosco hanno avuto rapporti con discografici che gli hanno detto no in quanto donne. Non per un loro sessismo ma dicendo “il mercato non vuole le donne”. Il mercato lo fa la discografia, non è che lo fa il pubblico. E tanto meno lo fa adesso. Se chi fa i dischi dice “no perché il mercato non vuole”…”.
Quindi se non esiste un mercato, a cosa dobbiamo riferirci?
“Non esiste un mercato ma esiste un immaginario, ma il problema è che quell’immaginario non è un immaginario aperto, l’immaginario purtroppo è fatto di quello che ti fanno vedere, non di quello che c’è. Ci sono tantissime artiste che girano, che campano di musica, che fanno concerti in giro per l’Italia (e non solo) ma che non fanno parte di quell’immaginario. Perché? Perché non vengono raccontate, perché i giornalisti che raccontano sono prevalentemente uomini. Il mercato è addomesticato, lo era anche quello delle radio, anche le radio decidevano chi finiva in classifica”.
Ma qual è l’interesse dietro questa forma di maschilismo, scusi? Chi è che ci guadagna nell’avere le donne fuori da questo immaginario? Non capiamo.
“Io non ne faccio una questione commerciale, quando ho parlato di problema culturale ho indicato secondo me il focus, che non è l’interesse. L’interesse è legato ad alcuni nomi, quello si, ma su quello nessuno è santo, è evidente che ci siano degli interessi, non mi spaventa né mi meraviglia. È grave la faccenda culturale. Secondo me questa è una battaglia femminista, come lo è la campagna per la detassazione degli assorbenti, sono battaglie di buon senso”.
Una battaglia che va combattuta come?
“Intanto senza di me, perché questa non è una battaglia che dovrebbe portare avanti un uomo. Se io ci fossi come narratore e non come promotore sarebbe meglio. Loro dovrebbero costituirsi cartello per avere un peso, tu pensa se duecento cantautrici vanno da Spotify dicendo “piacere, sono Pinco Pallina e rappresento artiste che, tutte insieme, raccolgono 500 mila followers”, secondo te non gli fanno una playlist ad hoc? Se vanno da Vevo, non gli spingono in alto i video? Servirebbe una casa discografica al femminile? Sulla carta è un’aberrazione, ma forse sì, forse potrebbe essere un segnale anche quello. L’importante è che tutto ‘sto casino porti ad una apertura. Ci voglio credere”.