L ’argomento sul web è stato accolto con fragorose risate. Effettivamente pensare ad Al Bano e Toto Cutugno trattati come due pericolosi sovversivi una risatina scappa. Non è complicatissimo capire le radici del successo di certa musica italiana all’estero, e in questo ci potrebbe aiutare un documentario, “Italiani veri” (2015) per la regia di Marco Raffaini e Giuni Ligabue, che indaga proprio questo solo apparentemente bizzarro fenomeno.
Anche se si narra di un successo strepitoso negli anni ’60 di Roberto Loreti, in arte Robertino, il vero racconto parte una sera del 1983, la Russia ai tempi è ancora fortemente cristallizzata nella sua lotta al capitalismo.
Una lotta che in musica si declina trasformando, giusto per capirci, Pink Floyd e Rolling Stone nel vero e proprio verbo del demonio.
Alla guida del Cremlino troviamo Jurij Vladimirovič Andropov, il più longevo direttore della storia del KGB, e nelle radio si celebra il solito patriottismo ai quali tutti i russi si sono ormai arresi, come ricorda un articolo de “La Stampa”: “La radio, solo a filodiffusione, trasmetteva musica classica e dibattiti sui kolkhoz”.
Si squarciarono le nubi e apparve Sanremo
La tv “nelle rare occasioni delle feste comandate, anniversario della rivoluzione d’Ottobre o Giorno della milizia, mandava in onda concertoni fiume dove la scaletta era stabilita una volta per tutte: musica da camera, balletto, canti popolari, canzoni «impegnate» di guerra e patriottismo eseguite da impettite ugole d’oro insignite del premio Lenin”.
Ma quella sera del 1983, in differita di diverse settimane, viene inspiegabilmente mandato in onda il Festival di Sanremo. È il festival presentato da Andrea Giordana affiancato da Isabel Russinova, Anna Pettinelli ed Emanuela Falcetti, all'epoca le tre donne di Discoring.
Uno show particolarmente fortunato; è anche il festival di Vasco Rossi e della sua “Vita spericolata”, oggi considerato un evergreen ma che ai tempi si piazzò al penultimo posto, e lui per protesta durante l’ultima esibizione sul finale del pezzo lasciò il palco dell’Ariston svelando all’Italia il famigerato playback.
È anche il festival di Tiziana Rivale, che lo vince alla fine, con “Sarà quel che sarà”. Il pubblico russo, forse troppo costretto nel ristrettissimo spazio di manovra culturale concesso dal governo, resta estasiato come se stesse assistendo al concerto di Woodstock.
In quell’edizione si ascoltano pezzi come “Vacanze romane” ma è un’altra la canzone che lascia letteralmente senza fiato i russi ed è “L’italiano” di Toto Cutugno.
Altro che Mick Jagger e Michael Jackson, in Russia quella notte nasce un mito che ancora oggi mantiene il suo splendore e viene accolto con folle oceaniche di affetto. Provate ad andare ancora oggi in Russia e presentarvi come italiano. Saranno in tanti, forse tutti, a chiedervi “Italiano vero?”.
Gorbaciov invita tutti
Si apre così la felice stagione degli “italianzy” e il motivo di tanta fascinazione, considerato il contesto dentro il quale irruppero, appare chiaro: i russi avevano un estremo bisogno di disimpegno.
E allora via a Toto Cutugno, Pupo, Al Bano e Romina, Celentano e Ricchi e Poveri: non c’è casa russa che di lì in poi non risuoni di quella musica per noi così anacronistica e per loro così semplicemente liberatoria. Quasi rock, quasi stroboscopica.
Due anni dopo la Perestroika di Gorbaciov permette di andare a suonare lì e i russi, che da due anni si inebriavano di quel tradizionale sentimentalismo italico, posso finalmente vedere dal vivo i loro beniamini.
Pupo racconta nel documentario di Raffiani e Ligabue che nel 1985 in Russia fece 46 concerti in un mese.
A Cutugno, che in tanti trascrivono “Kutunio” sono ancora oggi dedicati un’enormità di siti internet che lo celebrano come “il maestro melodico più grande di tutti i tempi”.
Al Bano nel 2013 è stato chiamato proprio lì a festeggiare i suoi 70 anni: a Mosca, nell’infinita sala Krokus City, con i prezzi dei biglietti che oscillavano tra i 40 euro dei posti più distanti con visibilità limitata al parterre vip da 1000 euro.