S e il rap in Italia arriva alle orecchie degli over 30 come un attacco di fastidiosissima otite non può essere sempre e solo colpa loro (nostra). Del loro (nostro) essere legati alla propria musica, e solo quella, o per i più nerd (e noi rientriamo nella categoria a piè pari) con la musica ancora più vecchia, intimamente convinti che le ultime cose che potessero vantare un minimo di decenza musicale siano state incise entro il 1974.
Ma quella è una patologia tutta nostra, fortunatamente non rappresentiamo nemmeno una percentuale da prendere in considerazione per un sondaggio nel nostro condominio. Sarà probabilmente questa nuova era della comunicazione bomba, ovvero la comunicazione che esplode e che poi finisce dappertutto, come la sabbia quando da piccolo giocavi a calcio in spiaggia a porta romana. E il fastidio, più o meno, è lo stesso.
E, ammettiamolo, è anche il fatto che più la musica risulta giovane e più noi ci sentiamo vecchi e ad ogni botto della discografia, luminoso come quelli di Capodanno, ci chiediamo se anche noi, fossimo giovani oggi, inonderemmo le orecchie di cotanta “immondizia musicale”, come la definiva il maestro Battiato.
Chi è Achille Lauro
Eppure, nonostante un primo approccio discreto alla dance di Corona, un’infatuazione inevitabile per il melenso 4x4 degli 883 e quella vacanza a Riccione a caccia di serate house “fortissime”, i cui ricordi bastano e avanzano oggi per farci salire un’ansia funerea, per il resto siamo cresciuti con roba tutto sommato accettabile, niente di illegale. Che genere di persone saremmo diventate se a 10 anni fossimo entrati in fissa con Sfera Ebbasta invece che con i Queen? Questo ci fa arrabbiare, il fatto di ritrovarci a chiedere “Ma chi è questo? Da dove spunta? Perché è ospite lì? Perché lo stanno intervistando là?”, poi fermare il giradischi che suona e aprire Google per informarsi. È successo più o meno così con Achille Lauro. L’artista del quale vi raccontiamo tutto questa settimana.
Si chiama in realtà Lauro De Marinis, classe 1990, cresce nella periferia romana, quartiere Vigne Nuove, a 10 anni va a vivere col fratello maggiore, ai tempi produttore del collettivo rap "Quarto Blocco". Ma lui non si fa prendere dal genere, preferisce il punk rock e ci piacerebbe sostenere che le influenze si vedranno in futuro, ma dimenticatevelo.
Sono proprio questi “Quarto Blocco” a farlo cantare per la prima volta (grazie mille, eh), lui ci prende gusto e inizia a rappare, pure lui confermando il triste e anche falso cliché che il rap è l’unico genere dove fondamentalmente non saperne nulla di musica ci può anche stare. Il nome del disco, Achille Idol Immortale, è dovuto in parte a Billy Idol, in parte al gioco di parole tra "idol" (in inglese "idolo") e "idle" ("fannullone"), ecco appunto.
Il deludente inizio
Siamo agli inizi di questa nuova ondata di ritorno mediatico nei confronti del genere che si ha l’impressione diventi a tutti gli effetti un prodotto da spremere. Per andare in sala di registrazione basta saper incrociare due rime e tenere il personaggio, a tutto il resto ci pensa l’autotune. Il livello è imbarazzante, ci piacerebbe poter salvare qualcosa, potervi citare qualche pezzo vagamente ascoltabile, magari i feat insieme a Gemitaiz o Coez, che sono due che ci sanno fare, ma anche in quel caso non c’è niente da prendere, tutti e 17 i pezzi sono beat vuoti.
Un irritente passo avanti
Nel 2015 ci riprova, pubblica “Dio c’è”, anche se la stessa esistenza del disco è la prova dell’esatto contrario. Un passo in avanti c’è, ma sembra più una casualità, quando si gioca la schedina sbagliare tutte le partite è difficile quanto azzeccarle tutte, per cui il disco, che parrebbe avere le velleità di passare per qualcosa di nicchia (e c’è tanta roba di qualità offerta dal rap) risulta invece semplicemente inascoltabile. E tutto sommato, se ci soffermiamo qualche secondo a rifletterci, è proprio difficile non farsi piacere un pezzo rap, che non è molto di più di qualcuno che dice qualcosa con un’inventiva ecclettica, poi quella cosa, accompagnata da quel determinato beat, può anche non interessare, può anche non risultare significative per la propria formazione musicale, ma “Dio c’è” va decisamente oltre: irrita.
Il contratto con la Sony
Nel 2016 il mercato discografico va essenzialmente in quella direzione, si capisce che della musica buona frega ad una fetta di pubblico che non basta evidentemente a pagare gli stipendi, così si decide di concentrarsi sui ragazzini, e i ragazzini, Dio li abbia in gloria, vogliono ascoltare il rap, come i coetanei americani. Solo che quelli c’hanno Drake, noi voliamo decisamente più bassi.
Allora, forse per tappare il vuoto o forse perché sotto minaccia da parte dell’Isis, la Sony decide di mettere sotto contratto il nostro Lauro, che sforna un’altra perdibilissima perla: Ragazzi madre. Le produzioni vengono raffinate, lo ascolti, non te ne frega niente di ciò che ha da dire questo tizio, ma perlomeno alla fine del disco (se arrivi a finirlo), non hai voglia di cadere in ginocchio e chiedere al buon Gesù cosa abbiamo fatto di male per meritarci questo.
Lancio di ghiaccio al concerto
Se la sua, sigh, musica, diventa vagamente più raffinata lui evidentemente non riesce a stargli dietro: l’11 maggio di quell’anno infatti, come ricorda il mitico Michele Monina in un articolo del Fatto Quotidiano, accade un episodio tanto spiacevole quanto esilarante: durante un suo concerto un ragazzo inizia a contestarlo lanciandogli cubetti di ghiaccio, il rapper blocca tutto e attacca un diverbio verbale con il ragazzo del pubblico dimenticandosi di spegnere l’effetto autotune. Immaginatevi un bot che prende a parole qualcuno con il vocabolario e l’accento di Mario Brega. Il video, che trovate allegato al pezzo di Monina, è imperdibile.
Comincia anche la collaborazione fissa insieme a tale Bosso Doms, con il quale il ragazzo viene chiamato per partecipare a “Pechino Express”, la loro coppia la chiamano “i compositori”. Arriveranno terzi e dall’Asia, ahinoi, ce li rispediscono indietro. E mentre qualcuno già urla in lacrime “ma perché loro sì e i Marò no???”, ecco che è tempo di un nuovo disco. Nel frattempo in Italia scoppia questa malsana mania della trap, e per Lauro è festa grande: l’autotune è definitivamente sdoganato, anzi i ragazzetti se canti con la voce tua non ti si filano.
Il nuovo disco si intitola Pour l’amour. Il francesismo è un vezzo cafoncello che stentiamo a capire. Il disco vanta la collaborazione di personaggi come Cosmo, Frenetik&Orange e ancora Gemitaiz, Lauro dichiara che il suo album è “per metà samba trap e per metà esperimenti che ho fatto con Boss Doms” e molti riflettono attentamente sul voler proseguire la propria esistenza in un mondo in cui è considerato legittimo abbinare due delle cose peggiori inventate dall’uomo: la samba e la trap.
È in questo disco che colleziona le prime hit che lo portano davvero ad un altro livello di popolarità: Purple Rain, Thoiry Remix, Penelope; tutti pezzi che su Spotify viaggiano regolarmente ben oltre il milione di ascolti. A quanto pare per scrivere queste perle di album Lauro, come dichiara candidamente in conferenza stampa di presentazione tra le risate dei colleghi presenti, usa un metodo chiamato “microdosing”. Come spiega lo stesso rapper “Pour L'Amour è stato ideato e realizzato con modalità abbastanza inusuali, abbiamo preso in affitto una villa e ci siamo recati lì in quindici 15, rimanendoci per due mesi. [...] Avevamo una scorta di 10 chili di erba, mi arrampicavo sugli alberi a piedi scalzi e mangiavo solo frutta, è stato difficile tornare alla vita normale”. Ecco dove finiscono i proventi dei nostri click.
Quando la droga fa male anche alla musica
Come riporta il sito blastingnews.com Lauro continua dicendo che “Io scrivo solo ed esclusivamente sotto l'effetto di stupefacenti. La droga è assolutamente fondamentale per la nostra creatività, oltre che per la nostra ispirazione musicale”. Ecco, ci siamo arrivati. Ecco cosa fa davvero arrabbiare di questi soggetti, non il fatto che possano farci sentire vecchi tanto il fatto che possano farci sentire bigotti. Le opinioni sulle droghe, leggere o pesanti che siano, è giusto che restino argomento da trattare privatamente, ma tutto si può imputare alle precedenti generazioni tranne che una condanna nei confronti delle droghe, ci avete confusi con i nostri nonni. Noi siamo cresciuti ascoltando musicisti drogati, ascoltando musicisti ai quali la droga ha deviato l'esistenza, quindi lungi da noi scandalizzarci per due canne; solo che quei musicisti poi producevano “Light My Fire”, “Foxey Lady”, “Me and Bobby McGee”, Come As You Are”, “Can’t Help Falling In Love”, “Sympathy For The Devil”, “God Save The Queen” o “No woman no cry”; nessuno di loro veniva fuori dopo due mesi di chiusa artistica con il testo di “Mamacita”.
Questo loro scimmiottare rockstar con le quali non hanno in comune nemmeno l’unghia del mignolo sinistro, svuota di significato, in maniera anche, si diciamolo, pericolosa, il mito del musicista bohemien, che con lo stordimento cerca altro da sé. I Beatles nel ’69 si recano in India per frequentare un corso di Meditazione Trascendentale presso l'ashram indiano di Maharishi Mahesh Yogi, resteranno strafatti praticamente per settimane, ma quando tornano in Inghilterra incidono The Beatles; Achille Lauro da quelle parti ci è andato giusto per girare le puntate di un reality della Rai, così per dire. Ci fanno sentire bigotti come persone che non vogliono accettare il nuovo, anche questo è offensivo oltre che falso. Non tutto ciò che è nuovo deve per forza avere valore in quanto nuovo.
Questo essenziale manuale è rivolto a quei genitori che non vogliono restare indietro, che vogliono capirci di più del mondo dei loro figli attraverso ciò che, come accade per tutte le generazioni, li crescerà e formerà più di quanto loro, mammà e papà, ne avranno mai capacità e potenzialità. La musica. La loro musica. Prima di partire allacciate bene le cinture, mettete da parte i vostri dischi dei Beatles, Adrianone Celentano, Mina e Battisti, la tv in bianco e nero, Berlinguer, e ogni vostro singolo pregiudizio su quanto tutto ciò che avete vissuto e ascoltato voi fosse infinitamente più “giusto” del loro e, già che ci siete, eliminate per sempre anche l’utilizzo del termine “giusto”, che non credo abbia mai significato alcunché a parte tirare una linea rispetto a ciò che è “sbagliato”. Antitesi che potrebbe contribuire non poco a formare una generazione di iscritti a Casa Pound.