AGI - “Nel 1970, a sette anni, andai per la prima volta al Tiffany. Mia madre Connie e il mio patrigno Curt mi portano a vedere un doppio spettacolo composto da ‘La guerra del cittadino Joe’ di John G. Avildsen e da ‘Senza un filo di classe’ di Carl Reiner. La rivoluzione della New Hollywood iniziò nel 1967. Quindi i miei primi anni di spettatore (sono nato nel ’63) coincisero con l’inizio della rivoluzione (il 1967), con la rivoluzione cinematografica in pieno corso (il 1968-69) e con l’anno in cui la rivoluzione fu vinta. Il 1970. L’anno in cui la New Hollywood divenne Hollywood. All’epoca i miei giovani genitori andavano spesso al cinema e di solito mi portavano con loro. Avrebbero potuto piazzarmi da qualche parte (mia nonna Dorothy era quasi sempre disponibile), ma invece mi portavano con loro. Un motivo era perché sapevo tenere la bocca chiusa”.
Nell’ultimo libro uscito in Italia lo scorso 21 marzo per La nave di Teseo, intitolato ‘Cinema Speculation’, Quentin Tarantino rievoca la sua infanzia insolita passata al cinema, una sorta di ‘imprinting’ che lo ha portato negli anni a diventare uno dei registi di culto del cinema mondiale. “Di giorno mi era consentito essere un bambino normale che faceva domande stupide ed era infantile, noioso ed egoista come di solito sono i bambini – racconta il regista - ma se la sera mi portavano al ristorante, in un pianobar dove suonava Curt, in un locale notturno (cosa che ogni tanto succedeva) o al cinema – a volte addirittura con un’altra coppia – sapevo che erano cose da grandi.
E se volevo partecipare alle cose da grandi, era meglio che non rompessi troppo i coglioni. In pratica dovevo evitare di fare domande cretine e capire che non ero il centro dell’attenzione. Gli adulti uscivano per parlare, ridere e scherzare. Il mio compito era starmene zitto e non interromperli in modo infantile. E sapevo che a nessuno importava molto dei mie commenti sul film o sulla serata (a meno che non fossero carini). Non è che se avessi infranto la regola poi sarei stato trattato male – aggiunge - ma ero incoraggiato a essere educato e a comportarmi in modo maturo. Perché se avessi fatto il bambino rompicoglioni, la volta dopo sarei rimasto a casa con una babysitter, mentre loro uscivano a spassarsela. E io non volevo stare a casa! Volevo uscire con loro! Fare cose da grandi!”. Il prossimo 27 marzo Quentin (o Quent come lo chiamava la mamma, o Q come lo chiamava uno dei tanti fidanzati della donna) compie 60 anni.
E prepara il suo prossimo e – così ha annunciato – ultimo film basato sulla storia vera di un critico cinematografico degli anni ’70. Si dovrebbe intitolare ‘The Movie Critic’ e, a quanto si apprende, entrerà in produzione il prossimo autunno. Nel ruolo principale della critica cinematografica, giornalista e saggista del New Yorker Pauline Kael (citata molte volte anche in ‘Cinema Speculation’), seguitissima e ammirata da Tarantino, si parla di Cate Blanchett e il film dovrebbe essere ambientato a Los Angeles verso la fine degli anni ’70. Confermando così la sua smodata passione per quel periodo storico cinematografico in cui si è formato e che è alla base del suo cinema unico e così coinvolgente che, a partire da ‘Le iene’ e ‘Pulp Fiction’, ha fatto di lui uno dei maestri assoluti del cinema.
Di film, a ben guardare, non ne ha diretti poi molti: nove finora (intendendo come unico il film in due puntate ‘Kill Bill’) – ‘Le iene’ (Reservoir Dogs) (1992), ‘Pulp Fiction’ (1994). ‘Jackie Brown’ (1997), I due capitoli di ‘Kill Bill’: ‘Kill Bill: Volume 1’ (2003) e ‘Kill Bill: Volume 2’ (2004), ‘Grindhouse - A prova di morte’ (Death Proof) (2007), ‘Bastardi senza gloria’ (Inglourious Basterds) (2009), ‘Django Unchained’ (2012), ‘The Hateful Eight’ (2015), ‘C'era una volta a... Hollywood’ (Once Upon a Time in Hollywood) (2019) – più l’episodio ‘Four Rooms’ del film ‘L'uomo di Hollywood’ (The Man from Hollywood del 1995. Non contano ovviamente la regia di ‘Sin City’ di Robert Rodriguez - per il quale Tarantino ha diretto una sola scena in segno di amicizia nei confronti del collega - né le regie televisive per alcuni episodi di ‘CSI: Scena del crimine’ e ‘ER: Medici in prima linea’.
Tra i film sceneggiati da Tarantino ma diretti da altri registi da citare poi ‘Una vita al massimo’ di Tony Scott, ‘Natural Born Killers’ di Oliver Stone, il cortometraggio ‘Dance me to the end of love, ‘Dal Tramonto all'Alba’ di Robert Rodriguez e ‘The Rock’ di Michael Bay. Non tantissimo, a ben guardare, eppure l‘importanza di Tarantino nel mondo del cinema è tale che il regista e storico del cinema Peter Bogdanovich lo ha definito “il regista più influente della sua generazione”.
Figlio di due studenti, dopo la separazione dei giovani genitori, avvenuta quando aveva solo due anni, seguì la madre a Los Angeles. Lì dall’età di sette anni iniziò a frequentare i cinema e guardare i film normalmente non permessi (e considerati non adatti) ai bambini. Frequentò la Hawthorne Christian School fino al 1979, quando iniziò a guadagnarsi da vivere in vari modi. Nel 1984 fu assunto in un videonoleggio, il Manhattan Beach Video Archivies, dove conobbe Roger Avary (con cui scrisse i suoi primi film, ‘Le iene’ e ‘Pulp Fiction’ oltre a ‘Una vita al massimo’ diretta da Tony Scott) e passò i cinque anni seguenti a formarsi una propria cultura cinematografica, basata soprattutto su film di genere e opere della Nouvelle vague. Dopo il fallimento, nell'estate del 1986, di un primo progetto cinematografico, il film ‘My best friend's birthday’ concepito con l'amico Craig Hamann, nel 1990 andò a lavorare per la Imperial Entertainment, una società di distribuzione b-movies in videocassetta, che lasciò nello stesso anno per la CineTel, una piccola casa di produzione hollywoodiana che lo assunse come sceneggiatore. In questo periodo scrisse ‘True romance’ (Una vita al massimo) e ‘Natural born killers’ (Assassini nati), che sarebbero stati diretti, rispettivamente, da Tony Scott nel 1993 e da Oliver Stone nel 1994. Nel frattempo Tarantino era riuscito a dirigere il suo primo film. E che film: ‘Reservoir dogs’ (Le iene), film da lui scritto (con Avary), diretto e interpretato.
Prodotto con un budget assai limitato, grazie all'aiuto di Harvey Keitel e del Sundance Film Festival, racconta il fallimento di una rapina, organizzata da una banda in cui è riuscito a infiltrarsi un poliziotto, e lo fa attraverso l'uso intensivo del flashback, che sconvolge la tradizionale linearità del racconto, senza per questo allentare la tensione. La storia, dichiaratamente ispirata ai pulp magazines americani, è ambientata ancora una volta nel mondo della criminalità e la struttura dà immediatamente quella che sarà la cifra artistica e stilistica di Tarantino: scene di violenza, rappresentate in maniera assai cruda secondo i canoni del cinema di genere (come i 'poliziotteschi' di Umberto Lenzi molto amati dal regista), uso, spesso diegetico (ossia suonata sulla scena) della musica, i dialoghi sopra le righe, i salti temporali nella narrazione e le ossessioni della cultura pop, l’amore per lunghi piano sequenza oppure il ‘mexican standoff’ (stallo alla messicana), ossia il "triello" nel quale tre personaggi armati di pistola si tengono sotto tiro l'un l'altro (inventato da Sergio Leone per ‘Il buono, il brutto, il cattivo’).
Il successo del primo film divenne vero e proprio trionfo con il secondo, ‘Pulp Fiction’, che nel 1994 vinse la Palma d’Oro e valse a Tarantino l’Oscar 1995 per la sceneggiatura (avrebbe replicato nel 2013 con ‘Django Unchained’). Nel cast del film, ricchissimo di nomi illustri, numerose furono le grandi prove acclamate dalla critica. Una su tutte: quella di John Travolta nei panni del gangster pulp e pasticcione Vincent Vega, quando l’attore si cimentò accanto a Uma Thurman (allora musa e compagna di Tarantino) in una memorabile scena di ballo al locale Jack Rabbit Slim's, in cui Travolta tornò a danzare sul grande schermo, sia pur in maniera parodistica, ad anni di distanza da ‘La febbre del sabato sera’.
Da quel film in poi Tarantino fui acclamato come uno dei nuovi maestri di Hollywood e ogni suo film è stato accolto con passione e entusiasmo. Non tutti, ad onor del vero, sono stati successi ma nessuno è passato inosservato. Alcuni, poi, sono diventati veri e propri film di culto: i due ‘Kill Bill’, ‘Bastardi senza gloria’ (Inglourious Basterds), ‘Django Unchained’ o ‘C'era una volta a... Hollywood’ (Once Upon a Time in Hollywood). Film amati, anche se spesso le sceneggiature hanno ricevuto critiche. La più forte riguarda il frequente utilizzo di epiteti razziali, o almeno ritenuti tali, nei suoi film, in particolar modo la parola negro (“nigger”). Leggendo ‘Cinema Speculation’, però, si comprende quanto questa espressione non voglia essere offensiva, bensì rappresenta il modo di parlare della comunità nera dove ci si rivolge l’un l’altro proprio con questa espressione.
E lo stesso Tarantino ha difeso il suo uso della parola sostenendo che il pubblico di colore apprezza i suoi film influenzati dalla ‘blaxploitation’ (genere di film che nacque negli Stati Uniti, nei primi anni settanta, quando molti film furono realizzati a basso costo avendo come pubblico di riferimento gli afroamericani) di cui il regista è appassionato avendola frequentata quando aveva 10 anni nei cinema con la madre e i suoi vari fidanzati di colore o i fidanzati delle sue coinquiline, una barista messicana e una nera.
Lunedì 27 marzo Quentin Tarantino spegne 60 candeline. Si prepara a dirigere il suo ultimo film (e, forse, una miniserie, almeno stando ai rumors provenienti dagli Usa). E dopo? E’ difficile immaginare che si limiterà a fare il critico cinematografico – che pure fa in maniera egregia (basta leggere ‘Cinema Speculation’) – restando dietro le quinte, scrivendo magari qualche sceneggiatura. Non dimentichiamoci che Tarantino è un grande regista e, come insegna Fellini, in quanto tale è un grande bugiardo.