AGI - In Italia c'è ancora un certo snobismo verso un genere di cinema noir fatto di azione, violenza, spettacolo, sparatorie, sangue. Un cinema che è diventato popolarissimo (e premiatissimo) grazie a Quentin Tarantino e che prende come modello le pellicole italiane dei poliziotteschi anni '70 e dei film made in Hong Kong. Ne è convinto il regista Toni D'Angelo, napoletano di nascita (e cultura) e romano d'adozione, ex assistente di Abel Ferrara e autore di 'Calibro 9', sequel di un cult movie del 1972 di Fernando Di Leo dal titolo quasi identico: 'Milano calibro 9'.
"In Italia c'è un atteggiamento snob nei confronti di un cinema con personaggi sopra le righe, con sparatorie, situazioni incredibili e spettacolari - spiega D'Angelo all'AGI - un cinema che ti dà la possibilità di raccontare storie per tutti, qualsiasi sia il loro livello culturale e la loro estrazione sociale. A ben guardare questo snobismo che c'è oggi in Italia verso questo genere di cinema è lo stesso che c'era negli anni '70 per pellicole oggi considerate di culto come era, per esempio, anche 'Milano calibro 9' di Di Leo".
'Calibro 9', interpretato da Marco Bocci, Ksenia Rappoport, Michele Placido, Alessio Boni e Barbara Bouchet, pronto per uscire in primavera 2020 è stato bloccato dall'emergenza Covid. Dopo essere stato presentato allo scorso Torino Film Festival, un nuovo stop fino alla decisione di farlo uscire il 4 febbraio sulle piattaforme on demand: è in programmazione su Sky Primafila Premiere, Apple TV, The Film Club, Rakuten Tv, Chili, IoRestoInSala e Google Play.
Il protagonista del film di Toni D'Angelo è Fernando (Marco Bocci), avvocato penalista con contatti malavitosi, figlio di Ugo Piazza (interpretato nel film di Di Leo da Gastone Moschin). La sua è una vita al limite e non teme di affrontare anche affari loschi. Cresciuto dalla madre Nelly (Barbara Bouchet) per essere un uomo diverso dal padre, Fernando sembra ripercorrere i passi di chi l’ha preceduto. Ma se in città scompaiono 100 milioni di euro con una truffa telematica, e se il principale indiziato è proprio un cliente dell’avvocato Fernando Piazza, quel cognome non può non avere un peso e portare ad un naturale collegamento. Soprattutto se la società truffata è solo una copertura e, chi c’è dietro, è una delle più potenti organizzazioni criminali del pianeta: la ‘ndrangheta. Milano, Calabria, Francoforte, Mosca e Anversa sono solo alcune caselle dello scacchiere su cui Fernando è costretto a giocare la partita per la propria vita, che lo porterà a confrontarsi con un mondo complesso, fatto di poliziotti corrotti, malavitosi in guerra e potenze politiche.
"Ho affrontato questo film con un approccio molto rispettoso verso quello degli anni '70 - racconta all'AGI Toni D'Angelo - rifiutando di fare un remake come mi era stato proposto all'inizio ma pensando con gli altri sceneggiatori (Luca Podelmengo, Marco Martani e Gianluca Curti, figlio di Ermanno Curti che produsse proprio 'Milano calibro 9' - ndr) di attualizzare quella storia. Non potevo toccare il film originale perché sarebbe stato quasi come mettere le mani sulla Bibbia, ma era interessante attualizzare quegli argomenti".
"Ci siamo chiesti: che cosa è successo 45 anni dopo, come è cambiato lo scenario criminale? Oggi la malavita esiste ancora ed è più forte, ma a differenza di quella raccontata da Di Leo - aggiunge il regista - la criminalità non è più radicata sul territorio, ma è nel mondo. Per questo abbiamo pensato all'associazione mafiosa più diffusa, alla 'ndrangheta, che parte dalla Calabria ma ha affiliati dovunque. E li manda nelle università a studiare per poi entrare nei palazzi del potere".
"Ci interessava raccontare di come la criminalità è rimasta - aggiunge il regista - ma sono cambiati i mezzi. Prima i soldi erano dentro una valigetta e ci si ammazzava di persona, guardandosi e sparandosi uno di fronte all'altro. Oggi è tutta una questione di transazioni digitali e anche l'omicidio avviene per via telematica".
Artisticamente legato e innamorato del cinema di Hong Kong ("L'ho scoperto quando Marco Muller era direttore della Mostra del cinema di Venezia, per me è stata una rivelazione", ricorda), D'Angelo porta avanti un'idea di cinematografia che in Italia inizia adesso ad affermarsi, soprattutto dopo l'inatteso e grandissimo successo nel 2015 di 'Lo chiamavano Jeeg Robot' di Gabriele Mainetti. "Quel film ha permesso agli altri registi di fare quel genere di film che prima era praticamente impossibile fare - spiega il regista - perché i produttori volevano solo film cosiddetti d'autore o commedie. In Italia c'è un atteggiamento snob nei confronti di un cinema con personaggi sopra le righe, con sparatorie, situazioni incredibili e spettacolari. Un cinema che ti dà la possibilità di raccontare storie per tutti, qualsiasi sia il loro livello culturale e la loro estrazione sociale".
"A ben guardare - commenta D'Angelo - questo snobismo che c'è oggi in Italia verso questo genere di cinema è lo stesso che c'era negli anni '70 per pellicole oggi considerate di culto come era, per esempio, anche 'Milano calibro 9' di Di Leo. Un atteggiamento che forse sta cambiando grazie anche a 'Jeeg Robot'. Ora, infatti, vedo che anche gli attori di primo piano italiani hanno meno paura di interpretare ruoli molto negativi. L'ultimo esempio significativo è il ruolo di Fabrizio Gifuni nel film 'La belva' andato su Netflix". Se i grandi attori non si preoccuperanno più di affrontare certi ruoli, sostiene D'Angelo, "sarà un bene anche per noi registi che facciamo un certo genere di film".