Q uando Dan Aykroyd consegnò la prima versione del copione a John Landis, come copertina utilizzò quella dell’elenco del telefono, questo perché 324 pagine sono quasi il triplo di una normale sceneggiatura. Landis, genio comico che nel 1980 aveva già partorito quella perla di “Animal House” e altre ne avrebbe abbandonate all’oceano della cinematografia comica americana come “Una poltrona per due”, “Il principe cerca moglie” e “Oscar – Un fidanzato per due figlie”, ci mise appena tre settimane a far diventare quelle 324 pagine il copione di un film strutturato; forse però non si aspettava, nessuno in realtà avrebbe potuto, che quel “The Blues Brothers” sarebbe potuto essere ricordato il 16 giugno del 2020, a quarant’anni esatti dalla premiere in quel di Chicago, come un film fondamentale della storia del cinema, di quelli imperdibili, che creano icone che vanno ben oltre la proiezione sullo schermo.
No, non se lo aspettava nessuno e le motivazioni erano molteplici: il budget messo a disposizione era ridicolo, appena 17,5 milioni di dollari, quando lo comunicarono a Landis rispose: “Mi sa che li abbiamo già spesi”. Poi il duo comico Dan Aykroyd/John Belushi aveva lasciato il cast del Saturday Night Live, fucina di alcuni tra i più talentuosi comici della storia della tv e del cinema a stelle e strisce, da più di un anno, il che aveva influito non poco sulla riconoscibilità del loro nome, insomma non erano più una garanzia di incassi; in più proprio la stessa coppia aveva fatto cilecca un anno prima con il disastroso “1941 - Allarme a Hollywood”, riconosciuto all’unanimità da pubblico e critica come il punto più basso della carriera di Steven Spielberg.
Infine il discorso razziale, come l’attualità ci sta mostrando in maniera piuttosto evidente, mai superato in maniera totale e pacifica; in questo senso “The Blues Brothers” era un film eccessivamente “Black Friendly” per alcuni stati del sud degli Stati Uniti, che si rifiutarono di proiettarlo; Ted Mann, proprietario dell'omonima catena di cinema che controllava molte sale importanti nella zona di Los Angeles, convocò Landis per dirglielo in faccia chiaro e tondo: non avrebbe proiettato il film perché non voleva attirare spettatori di colore nei quartieri abitati prevalentemente da ricchi bianchi, e poi gli spettatori di quelle zone non sarebbero mai andati a vedere film con vecchie glorie della musica nera; così delle 1400 copie che solitamente accompagnano l’uscita di un film con quel budget, ne girarono solo 600.
L’accoglienza della critica poi fu spietata: il Los Angeles Times scrisse di un “disastro da 30 milioni di dollari”, il New York Times lo definì una “saga presuntuosa”, Variety parlò di “humor elementare”. “The Blues Brothers” allora, per farsi capire e apprezzare, dovette fare il giro largo e passare dall’Europa dove invece venne osannato diventando il primo film della storia della cinematografia americana a incassare di più all’estero che in patria.
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Belushi, genio e sregolatezza
Ma quando un film rappresenta qualcosa in più di un film il suo percorso prende vie tortuose e inimmaginabili, perché quella è la strada della storia, e così fu per “The Blues Brothers”, che fu una produzione complessa, se non fosse per i motivi già citati perlomeno per la presenza nel cast di John Belushi, che quegli occhiali neri doveva indossarli e non poteva toglierli, non c’era molta scelta, dato che la maggior parte delle volte si presentava sul set dopo giorni di feste no-stop, senza un minuto di sonno in corpo, regolarmente drogato o ubriaco e con gli occhi spenti. Ok, risolviamo, occhiali neri per tutto il film, per la precisione i Ray-Ban Wayfarer, modello che fino al 1980 veniva venduto circa 2 mile volte l’anno, dopo l’uscita del film 20mila.
Solo uno dei brand rilanciati dal film, un altro è proprio quello legato alla città di Chicago che, si calcola, incassi circa 12 milioni di dollari l’anno solo di turisti in visita ai luoghi del film. Gestire John Belushi non doveva essere semplice, tanta genialità regalava davanti alla telecamera, tanti grattacapi provocava dietro; un giorno se ne persero totalmente le tracce, sparì improvvisamente dal set, nessuno sapeva dove fosse finito, le ricerche durarono ore, fin quando Aykroyd non si accorse di una casa con le luci ancora accese, si incamminò di persona per andare a controllare, bussò alla porta e il padrone di casa, senza nemmeno lasciargli il tempo di porgere le proprie scuse per l’orario chiese “sei qui per John Belushi, vero?”, a quanto pare l’attore aveva bussato alla stessa porta diverse ore prima chiedendo un bicchiere di latte e un panino, poi si era addormentato sul divano e lì venne trovato dal collega.
“Siamo in missione per conto di Dio” ripetono spesso i fratelli Jake ed Elwood durante lo snocciolarsi della trama, ed effettivamente qualcosa di divino aleggia sulla pellicola, partendo proprio dalla musica, “The Blues Brothers” infatti mette insieme le performance di una lista di artisti della cultura soul americana che a scorrerla col dito vengono i brividi: James Brown, Ray Charles e Aretha Franklin sono solo quelli più famosi al grande pubblico, ma per gli amanti del genere si vedono anche Cab Calloway, Big Walter Horton, Pinetop Perkins e John Lee Hooker. Non a caso la BBC nel 2004 elegge la colonna sonora del film la più bella della storia del cinema, come potrebbe essere altrimenti? “I Can't Turn You Loose”, “Boom Boom”, “Think”, “Shake a Tail Feather”, “Gimme Some Lovin'”, “Minnie the Moocher”, “Everybody Needs Somebody to Love”, “Sweet Home Chicago”, “Jailhouse Rock”…una playlist praticamente inarrivabile, anche per quanto riguarda la storia del musical.
Ecco, “The Blues Brothers” cavalca la leggenda ad una velocità tale da lasciarsi alle spalle anche qualsiasi “problema” riguardante l’incasellamento in una determinata categoria, c’è tanta musica ma non è esattamente un musical; c’è tanto di recitato ma non si può non considerare la musica vera protagonista della trama. Si ride, si, ma è pura black comedy, portata sul grande schermo da due bianchi che vivono la propria vita e le proprie avventure al ritmo di un genere musicale di matrice essenzialmente afroamericana. Un film che è un paradosso, che fa dell’epicità delle scene che lo compongono e dei personaggi che lo animano il proprio punto di forza, non per niente ancora oggi quando si pensa al completo nero, cappello nero e occhiali scuri, non si può che pensare a loro, ai fratelli Jake ed Elwood, e ad un film capace di trasformare la finzione in mito e il mito in realtà.