P rima che indossasse trucco e parrucco per diventare Freddie Mercury, in pochi sapevano chi fosse Rami Malek, l’attore nato a Los Angeles nel maggio dell’81 ma di origini egiziane che ieri, proprio grazie alla sua interpretazione del leader dei Queen, è riuscito a portarsi a casa l’Oscar come migliore attore protagonista. Non è un caso se questa mattina (in Italia), all’annuncio della vittoria, sia stata proprio Usa Network, la rete che ha prodotto “Mr. Robot” e scelto Malek come protagonista, a congratularsi con lui con un post su Facebook, esultando come un genitore orgoglioso, come chi per primo, ha creduto nel talento di un ragazzo che ne ha da vendere.
Il passo precedente a “Bohemian Rhapsody” infatti è proprio la serie “nerd” “Mr. Robot”, dove interpreta il sociofobico e schizofrenico protagonista, l’ingegnere informatico Elliot Anderson; parte che ha fruttato al giovane attore un Emmy e un paio di candidature ai Golden Globe. Il nome insomma da qualche anno gira, ma “Mr. Robot”, nonostante il successo, non è una serie migliore o peggiore di tante altre.
Certo se si fanno ulteriori passi a ritroso nella sua filmografia troviamo il suo contributo a produzioni importanti come la trilogia di “Una notte al museo”, dove appare per la prima volta sul grande schermo nel ruolo del Faraone Ahkmenrah; oppure la piccola parte in “The Master”, purtroppo per lui forse la peggior performance del genio visionario Paul Thomas Anderson.
E la lista potrebbe fermarsi a “Oldboy” e “Il Sangue di Cristo”, le due esperienze con Spike Lee, anche lui finito tra i premiati ieri durante la notte degli Oscar. Una carriera di tutto rispetto, sì, ma che forse difficilmente avrebbe preso il volo ad alta quota se non gli fosse venuto in mente un giorno di girare un video con il proprio cellulare mentre si divertiva durante una cena tra amici a fare quell’imitazione che gli è sempre riuscita benissimo: Freddie Mercury; finita poi tra le mani della produzione di Bohemian Rhapsody proprio mentre il progetto faticava a prendere il largo dopo l’abbandono della parte di Sacha Baron Cohen e Ben Whishaw.
Ma se c’è un posto nel mondo dove è possibile credere che le favole diventino realtà, quello è certamente Hollywood, così ieri la felice parabola di Malek/Mercury ha toccato l’apice dopo aver già incassato la vittoria nella stessa categoria a Golden Globe e Bafta. Una vittoria molto meno scontata di quanto i bookmakers volessero farci credere alla vigilia, dovendo superare in categoria due star del calibro di Christian Bale e Viggo Mortensen, tra l’altro anche particolarmente in forma nelle pellicole “Vice” e “Green Book”.
Ma alla fine, forse anche supportato dal successo planetario da record del film, a farcela è stato lui, Malek, nei panni di Freddie Mercury, uno statunitense di origini egiziane (vedi alla voce Mahmood), figlio di immigrati, che racconta la storia, come lo stesso Malek non dimentica di ricordare durante il discorso di rito, di un immigrato. Immigrato e omosessuale, per essere precisi. I genitori di Rami lasciarono El Cairo nel 1978 e fino alla vigilia degli anni ’90 in casa Malek la lingua d’ordinanza era l’arabo, per tutti.
Per i genitori, che non avevano ancora imparato l’inglese, per la sorella maggiore, la dottoressa Yasmine, e per suo fratello gemello Sami, più giovane di lui di soli quattro minuti. È l’inizio di una favola? È possibile. Ne avremo la prova quando lo potremo vedere alla prova con interpretazioni meno “pop”, più impegnate, interpretazioni che non puzzino di celebrazione a tutti i costi, che non vengano anticipate mesi prima sullo schermo dal bene indiscusso che si vuole (e deve) ad un’icona come Freddie Mercury. Un Oscar strameritato il suo, ma la favola stanotte (mattina in Italia) è solo cominciata, ora che si sta in cielo è necessario sbattere forte le ali per continuare a volare.