“I profili social creano un mondo virtuale, io preferisco vivere quello reale”. Elio Germanio non ha dubbi. In un’intervista a la Repubblica, nella quale presenta il suo nuovo film L’uomo senza gravità di Marco Bonfanti, l'attore romano si chiede anche: se esci dal reale “cosa racconti?”.
Per lui “il piacere è condividere le cose che so fare”, quindi condivisione materiale e non virtuale, vera e non ipotetica. Per questo motivo ha anche deciso di non avere alcun profilo social, di star fuori da tutto, da Facebook, Twitter, Instagram, Pinterest, eccetera. Una scelta molto radicale. Che per lui diventa invece una “scelta radicale, costringersi a spendere il poco tempo che ci rimane, al di laàdel lavoro”, anche perché non è affatto detto “che se una cosa è diffusa o utile bisogna aderire” a tutti i costi. E chiosa: “La vita è una, se abbiamo soldi o follower poi non ne vinciamo un’altra”.
E il nuovo film, che sarà presente alla Festa del cinema di Roma e in sala dal 21 al 23 e dall’1 novembre anche su Netflix, in cui interpreta il ruolo un ragazzo capace di volare che la madre e la nonna crescono chiuso in casa per proteggerlo da pettegolezzi e pericoli fino al momento in cui, giovane uomo, tenta di spiccare il volo tra le insidie di una società pronta a sfruttarne le potenzialità, gli ha fatto in qualche modo riflettere e ripensare a quando un ragazzino lo è stato lui.
“Ricordo – racconta Germano – le differenze a scuola tra chi aveva le cose firmate, il pezzo del robot dei cartoni animati e chi no”. E ricorda anche che le televisioni commerciali dell’epoca “spingevano sulla scalata sociale come unico modello” possibile di vita. “C’ero dentro anch’io, certo”, riconosce, “ma andando in crisi ho iniziato a vedere le cose in modo critico. Mi sentivo inadeguato e mi sono ribellato”, aggiunge.
Però, ammette, “ho avuto la fortuna di riconoscere la mia fragilità come possibilità e ne ho fatto il mio lavoro”. E così, nel tracciare anche il percorso del nuovo film, Elio Germano ricorda che questo prende le mosse dagli anni Ottanta per raccontare un passaggio cruciale nel nostro paese in cui “il lavoro diventa non più qualcosa in cui riconoscersi ma un strumento per fare soldi. È figo chi lavora poco e guadagna tanto”, dice.
E in questo modo “secoli di storia ci hanno raccontato che l’artista è una persona con fragilità e disagi che lo pongono fuori dalla società. Un quadro, un romanzo, una melodia sono le sue modalità – aggiunge – per trovare una comunicazione col mondo, altrimenti impossibile. Ma a un certo punto hanno iniziato ad andare avanti quelli che riuscivano a mercificare la propria creazione”.
“I percorsi virtuosi sono diventati sempre più casuali. L’arroganza e la potenza sono il modello dominante – conclude – se hai una sensibilità troppo vivida ti fai male, sei schiacciato anche in quegli ambienti artistici che dovrebbero fare di questa sensibilità il canale principale”. Con queste premesse e caratteristiche, stare fuori dai social è per lui una scelta quasi obbligata. Meglio, una “scelta radicale”.