S i chiama ‘Io scrivo’ ed è nato dall’esperienza personale di Matilde D’Errico, sceneggiatrice, ideatrice e regista di titoli televisivi celebri come ‘Amore Criminale’ e ‘Sopravvissute’ (di cui è anche conduttrice), il docufilm in onda il 4 gennaio in prima serata su Raitre. Racconta il corso di scrittura creativa con cui al Policlinico Gemelli di Roma si sono misurate, riversando le loro emozioni, le loro paure e le loro speranze dodici donne, dai 39 ai 65 anni.
Tutte diversissime tra loro (una psicoterapeuta, una casalinga, un’igienista dentale e tra le altre, una carabiniera forestale) ma con in comune una diagnosi di tumore al seno, la stessa che tre anni fa ha colpito D’Errico, 47 anni, oggi impegnata, oltre che con la ripresa delle sue due trasmissioni cult, con un nuovo di corso di scrittura terapeutica per un secondo gruppo di donne in cura al Gemelli.
Tra quelle in tv il 4 gennaio ci sono donne uscite dalla malattia e alte ancora alle prese con la malattia: “Nonostante età, professioni e contesti familiari disparati ci unisce e accomuna l’esperienza del tumore, chi ci si confronta poi si sente come un reduce del Vietnam, un sopravvissuto - chiarisce D’Errico all’AGI - Io mi controllavo regolarmente e proprio la prevenzione mi ha salvato la vita, consentendomi di operarmi e di curarmi in tempo, ma la mia prima reazione è stata ovviamente la paura di morire.
Com’è nata l’idea del corso di scrittura terapeutico?
Scrivere un diario mi ha aiutata molto a governare la mia paura durante le cure, al Policlinico Gemelli, un vero centro d’eccellenza. Alla fine del mio percorso ho pensato di voler aiutare altre donne e ho proposto al reparto senologia diretto dal professor Riccardo Masetti, nell’ambito delle “terapie integrate” cui il Gemelli dà vita con la onlus Komen Italia, un corso di scrittura creativa, una volta a settimana per quattro mesi. Il racconto ha un grande valore terapeutico, è un grande strumento per elaborare le emozioni ingenerate da una malattia come il cancro, perché permette di esternare e dare un confine alle nostre paure, che vanno vissute e non rimosse. Anzi, per lavorare con più prossimità alle emozioni ho chiesto alle donne coinvolte di scrivere rigorosamente a mano.
Come si è dipanato il corso e cosa si vede nel docufilm?
Ci sono state lezioni legate alla narrazione di sé e lezioni di sceneggiatura, perché volevo regalare anche momenti di evasione pura. Ho filmato il corso e i relativi percorsi di elaborazione narrativa nel reparto, raccogliendo nel docufilm anche la voce dei medici, e quindi ho seguito le dodici protagoniste a casa loro, per documentare la loro vita quotidiana e le percezioni relative al cambiamento delle relazioni con i familiari durante e dopo la malattia: non è mai facile, spesso si instaura una distanza emotiva anche in famiglia, è difficile comunicare agli altri come ti senti, non fisicamente ma interiormente.
Che genere di emozioni hanno affidato alla pagina bianca le dodici donne?
Insieme alla loro sensazione di solitudine, hanno parlato della paura della morte, perché guardarla e affrontarla è terapeutico, e delle loro speranze. Ho chiesto anche di scrivere le parole che avrebbero voluto sentirsi dire da amici e parenti.
Come ci si deve rivolgere a chi si sta curando un tumore?
Credo che la regola sia quella di esserci e ascoltare, evitando la superficialità della pacca della spalla e del “dai forza che ce la farai” rivolto magari a chi ha una diagnosi molto infausta. Personalmente su tutte le frasi di presunta empatia rivolte a chi ha un tumore detesto quella del “Chiamami se hai bisogno”.
Nessuna delle sue allieve-pazienti si è fatta problemi a mettere la sua faccia e la sua storia in tv?
Affatto. Ma non credo che ci siano regole in questo campo, mi è capitato di conoscere anche persone che hanno preferito non condividere con nessuno, o solo con pochi intimi le loro diagnosi e le rispetto anche se personalmente penso che temersi tutto dentro non giovi.