Già prima della guerra in Ucraina, che Internet fosse l’immateriale necessario che sta profondamente trasformando la vita di tutti lo aveva confermato la pandemia da Covid-19. L’emergenza sanitaria ha spinto verso radicali cambiamenti che hanno accelerato i processi di digitalizzazione di quasi tutte le attività. Interi ambiti della vita professionale, personale e familiare sono stati spostati nello spazio digitale: da attori fisici ci si è trasformati in attori digitali. Il conflitto in corso ha ulteriormente accentuato questa dimensione, mostrando come la guerra si combatta in due spazi, quello fisico e quello cyber, ma non solo.
La rete è il non luogo dove si muovono, si strutturano e si radicalizzano cose, e Internet si è rivelato un bene primario al pari dei beni primari tradizionalmente intesi, necessari per la sopravvivenza. Cibo, medicinali, abiti convivono con satelliti a cui agganciarsi per continuare a esistere nella dimensione digitale. E così abbiamo visto il vice primo ministro ucraino Mykhailo Fedorov chiedere ed ottenere - da Elon Musk - stazioni per connettersi a SpaceX.
La connettività di rete rappresenta ormai un asset indispensabile e la rete e la sua pervasività sono oggi, in un territorio di conflitto, fondamentali anche per monitoraggio e operatività di tutte le infrastrutture critiche, come ospedali, ferrovie, aeroporti, impianti industriali nonché per il supporto di operazioni militari e di controffensiva cyber. La rete è anche il campo di battaglia della propaganda e delle fake news, lo strumento attraverso il quale combattere la cyber guerra. Ma grazie alla rete e ai suoi protocolli si sta permettendo anche a bambini profughi (diversi anche in Italia) di poter seguire a distanza i loro insegnanti che continuano le lezioni dai rifugi o da scuole bombardate.
La guerra in Ucraina sta mettendo in discussione tante convinzioni, spesso “polarizzate”, spesso frutto di visioni ideologiche vissute ed interpretate esclusivamente con la lente del passato. Ha mandato in crisi, ad esempio, l’idea che il tema dell’energia non fosse centrale nello sviluppo di un paese e che quindi si potesse semplicemente dire No: no al nucleare, no al carbone, no al petrolio, e Sì all’acquisto di energia da altri paesi, sì all’acquisto di gas dalla Russia.
Il tema energetico, affrontato finora distrattamente, non è diverso da quello di altre materie prime per le quali dipendiamo da altri paesi: primo tra tutti, la Cina. Ma la questione della dipendenza energetica non è dissimile dalla dipendenza tecnologica che il nostro paese ha nei confronti delle BigTech. Una dipendenza ancora meno giustificabile delle altre, frutto del mancato atavico investimento in competenze tecnologiche e digitali da parte dell’Italia, conseguenza dell’incapacità, dell’Italia e dell’Europa tutta, di ritagliarsi un ruolo sull’innovazione tecnologica, di avere asset digitali e servizi su cui investire, di generare così non solo sviluppo, bensì progresso.
La “vecchia” Europa rappresenta infatti meno del 4% della capitalizzazione di mercato delle 70 maggiori piattaforme digitali globali (l’America ha il 73% e la Cina il 18%). Si è preferito acquistare e usare tecnologia da fuori l’Europa (e l’Italia) piuttosto che stabilire regole per sviluppare le infrastrutture del futuro e creare un ecosistema stabile. Eppure l’Europa può ancora rappresentare un polo nevralgico del digitale di domani in cui giocare un ruolo indispensabile per garantire l’equilibrio digitale globale. Un terreno in cui anche l’Italia può e deve fare la sua parte. La guerra in Ucraina ci sta forse dicendo anche questo: alla dipendenza da sistemi e servizi digitali di altri paesi va rapidamente messo un freno.