AGI - Enrico Suetta è responsabile ricerca e sviluppo spazio e optronica di Leonardo. L'azienda italiana è in prima linea nella missione "Juice" dell'Agenzia Spaziale Europea, ovvero il lancio, previsto il 13 aprile dallo Spazioporto di Korou, nella Guyana francese, di una sonda che tra otto anni raggiungerà Giove, per studiarne i satelliti. Nello stabilimento Leonardo di Campi Bisenzio sono stati realizzati Janus, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), camera ad alta risoluzione per il monitoraggio dell’atmosfera del pianeta e lo studio approfondito delle sue lune ghiacciate, e Majis, strumento di responsabilità francese ma realizzato con un accordo bilaterale tra Asi e Cnes, la cui testa ottica iperspettrale consentirà di osservare e caratterizzare nubi, ghiaccio e minerali sulle superfici delle tre lune.
Proprio a Campi Bisenzio abbiamo avuto modo di incontrare Suetta, che ci ha illustrato gli "occhi" della sonda e ci ha spiegato come potranno indagare i corpi celesti con un livello di precisione e definizione mai visto prima.
I nuovi strumenti optometrici cui si avvale la missione Juice ci consentiranno di comprendere mai come prima quale sia la composizione di Giove. Cosa sappiamo già e quali sono le principali domande che ci poniamo?
"Su Giove ci sono già state altre missioni, quindi abbiamo già molte informazioni sulla composizione dei pianeti. Chiariamo che la parte ottica degli strumenti di bordo è in grado di fare un'analisi delle superfici, non può andare in profondità, per quello ci sono altri strumenti. Quello che Juice farà rispetto alle missioni precedenti è avere strumenti con prestazioni superiori. Nel caso della camera, riuscire a dare un dettaglio delle superfici delle lune come non abbiamo mai avuto prima. Lo spettrometro, che è Majis, invece, essendo uno spettrometro estremamente performante, sarà in grado di dare una risposta alla composizione chimica delle superfici delle lune come prima non avevamo".
Quali sono i principali avanzamenti tecnologi rispetto a Juno, la missione della Nasa su Giove?
"Sono passati alcuni anni, partiamo dal cuore delle macchine: il rivelatore, ovvero l'oggetto che è messo sul piano focale e raccoglie la luce focalizzata dallo strumento, è molto più sensibile, poi ci sono componenti ottici che sono in grado di dare più dettaglio. Nel caso della camera sono in grado di dare un dettaglio a terra superiore, dallo spettrometro sono in grado di disperdere la luce con una finezza che prima non era possibile. Questo ovviamente è dovuto all'evoluzione tecnologica di questa componentistica. Qui abbiamo 508 bande cromatiche per ogni canale, sia per il visibile che per l'infrarosso, in totale 1016. Quello di Rosetta, che è suo padre o suo nonno, faceva la stessa cosa ma le bande erano circa un centinaio. Quindi è chiaro che ora ho una definizione e una capacità di discernere i materiali e le sostanze che osservo molto più alte. E anche con meno luce, perché questo sistema è molto più sensibile anche con bassa luminosità".
Quali sono le principali sfide comportate dalla particolare ostilità dell'ambiente di Giove?
"Ha comportato una selezione molto spinta dei materiali, parliamo di ottiche, trattamenti ottici, e della componentistica elettronica, che è l'altro elemento che viene ovviamente danneggiato dalle radiazioni. Un esempio è lo specchio primario di Janus, per l'ottica, che ha un trattamento riflettente molto conduttivo in grado di evitare l'accumulo di cariche elettrostatiche, quindi viene poi collegato a terra in modo da evitare che tutta la macchina si carichi in maniera elettrostatica. Quindi c'è tutta una serie di accorgimenti, oltre che di scelta dei materiali".
Per quanto riguarda il sistema di alimentazione, la sonda è in grado di continuare a funzionare anche qualora i pannelli subiscano danni parziali?
"I pannelli sono dimensionati con un margine. Questo margine tiene conto dell'invecchiamento che i pannelli hanno nel tempo, dovuto soprattutto alle radiazioni, o al fatto che c'è un invecchiamento naturale del materiale, e su questo non ci sono problemi. Per essere in crisi bisognerebbe che ci fosse un danneggiamento estremamente serio, altrimenti siamo in grado di farla funzionare fino alla fine della missione. Poi ci sono, in casi di emergenza, delle tecniche di gestione di tutte le macchine di bordo, i payload, per cui magari non tutte vengono tenute accese contemporaneamente, si spegne una parte di utilizzatori, si specializza l'osservazione scientifica sulla base dello strumento predominante in quel momento. Però questo è un caso di emergenza".
La lunga durata della missione ha imposto l'utilizzo di materiali nuovi?
"Ci sono sicuramente alcuni materiali che sono estremamente costosi, che possono avere una composizione chimica un po' più raffinata ma non direi che abbiamo utilizzato materiali completamente sconosciuti perché comunque, siccome devi garantire un'affidabilità nel tempo, non puoi partire da soluzioni troppo innovative, quello lo puoi fare su missioni di breve durata e allora in questo caso te lo puoi permettere. Questa è comunque una missione operativa, deve durare tra volo e missione oltre dieci anni. quindi la scelta dei materiali viene fatta con un minimo di saggezza".