AGI - Una sorta di 'cold case' archeologico è al vaglio di un gruppo di studiosi dell'Università di Bologna, dopo il ritrovamento di un cranio umano di oltre 5.000 anni fa, ritrovato isolato in una grotta del Parco dei Gessi, a San Lazzaro di Savena, vicino a Bologna, in cima ad un pozzo verticale alto 12 metri che non comunica con l’esterno. Risalente all’Età del Rame e datato a più di 5.000 anni fa, è stato ritrovato a 26 metri sotto il livello del suolo.
A chi apparteneva? Come ha fatto ad arrivare fin lì? E cosa significano quei tagli che si vedono in diversi punti del reperto? Queste le domande alle quali gli studiosi hanno cercato delle risposte, con un articolato studio multidisciplinare. I risultati – pubblicati sulla rivista PLOS ONE – offrono qualche risposta.
La protagonista è una giovane donna, tra i 24 e i 35 anni, vissuta nell’Età del Rame (Eneolitico), il cui cadavere doveva essere stato manipolato con operazioni di pulizia dei tessuti molli, forse nell’ambito di un rituale funerario. Il corpo doveva trovarsi sul bordo di una dolina: da lì il cranio, spinto dall'acqua e dal fango, deve essere rotolato all’interno della grotta, fino al punto e in cui è stato ritrovato.
“Questa è la prima chiara evidenza di manipolazioni peri mortem di un cranio in epoca eneolitica in Italia documentata solo dallo studio osteologico, considerando che il contesto in cui è stato trovato il cranio è privo di qualunque altra evidenza antropologica e archeologica”, dice Maria Giovanna Belcastro, professoressa del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, che ha coordinato lo studio.
“Si tratta di una scoperta che offre importanti indizi per ricostruire le pratiche funerarie delle popolazioni eneolitiche che vivevano nel territorio emiliano-romagnolo”. La scoperta del cranio risale al 2015. Fu trovato 26 metri sotto il livello del suolo durante l’esplorazione di un nuovo ramo della Grotta “Marcel Loubens”: una cavità che si trova all’interno del Parco regionale dei Gessi bolognesi e calanchi dell’Abbadessa (a San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna), nell’area centrale di una grande depressione carsica chiamata Dolina dell’Inferno.
Lo studio delle lesioni peri mortem sulla superficie del cranio ha suggerito che il cadavere (o forse solo la sua testa) doveva essere stato oggetto di manipolazioni intenzionali, effettuate probabilmente nell’ambito di un rituale funerario. C’è inoltre un elemento in più: tra le lesioni individuate dagli studiosi, una sembra legata ad un intervento (forse chirurgico) 'intra vitam' di cui rimane una piccola traccia attorno alla quale c’è un alone rossastro, forse dovuto all’applicazione di ocra, pigmento usato in ambito funerario già nel Paleolitico.
“Lo studio di questo reperto ci riporta ad una visione della vita e della morte molto diversa dalla nostra, propria invece delle comunità eneolitiche di quella zona”, spiega la professoressa Belcastro. “La manipolazione del cadavere o dello scheletro, che poteva prevedere anche attività cruente, e in particolare un’attenzione specifica per il cranio, è documentata fin dalla preistoria più lontana”.