Quella del 30 dicembre scorso fu una giornata inaspettata che sconvolse la routine della dottoressa Ai Fen, responsabile della terapia d'urgenza all'ospedale centrale di Wuhan. È arrivato un paziente che lamenta sintomi influenzali ma su cui non hanno effetti i soliti trattamenti.
La dottoressa manda i prelievi al laboratorio e riceve il risultato: Sars coronavirus. Quando legge le vengono i sudori freddi: cerchia a penna la parola Sars, fotografa il referto e lo invia a un ex collega di università, che fa il medico in un altro ospedale di Wuhan. L'immagine fa il giro dei colleghi quella sera stessa, ma durante la notte la dottoressa riceve un messaggio dall'ospedale: le notizie sul caso misterioso non devono essere diffuse per evitare il panico. Due giorni dopo, il responsabile disciplinare dell'ospedale invia un richiamo alla dottoressa per "avere diffuso voci che turbano la stabilità".
Anche allo staff del suo reparto viene intimato di non diffondere immagini o messaggi sul caso. La dottoressa può fare solo una cosa: chiede ai colleghi di indossare maschere e indumenti protettivi sotto il camice, malgrado le autorità ospedaliere le abbiano detto di non farlo.
Lei, la dottoressa, racconta: "Abbiamo assistito all'arrivo di un numero crescente di pazienti mentre il raggio di diffusione dell'infezione si allargava". Arriva anche gente senza nessun rapporto con il mercato del pesce di Wuhan (dove il coronavirus avrebbe avuto il primo focolaio). Nel contempo, i dirigenti ospedalieri insistono che non c'è ragione di credere che il virus sia trasmesso da persona a persona. "Io mi resi conto che doveva esserci una trasmissione da uomo a uomo", dice invece la dottoressa.
Il 21 gennaio scorso, il giorno dopo che le autorità cinesi finalmente confermano il contagio intraumano del virus, il numero dei residenti che arrivano al pronto soccorso ha già raggiunto i 1.523 in un giorno.
Ai Fen rammenta molti flash di momenti incancellabili: per esempio un anziano che porge al medico il certificato di morte del figlio di 32 anni, o un papà che sta talmente male da non riuscire a uscire dalla macchina davanti all'ospedale. Quando ne discende, fa due passi e cade morto.
Negli ultimi due mesi, la dottoressa ha visto molti colleghi ammalarsi e quattro di loro morire per il virus. Uno è stato Li Wenliang, l'oculista che sulla base delle notizie "secretate" di Ai Fen diede l'allarme dell'epidemia e fu silenziato e sanzionato. La sua morte ha non a caso destato rabbia e lutto in Cina. Furono otto, nella fase iniziale dell'epidemia, i sanitari sanzionati per "diffusione di voci".
Non è che ora le cose siano finite sotto la trasparenza del cristallo. Il racconto della dottoressa Ai Fen, ripreso da The Guardian, è contenuto in una intervista al magazine cinese Renwu di martedì scorso, ma a seguito della censura il post è stato velocemente rimosso. Se ora si conosce, è perché diversi utenti di Internet hanno fatto lo screenshot dell'articolo e lo hanno diffuso. Altre versioni del testo, nel tentativo di eludere le censure, sono state divulgate punteggiate di emoji, o in alfabeto morse oppure romanizzate in pinyin (il sistema di trascrizione corrente dei caratteri dal cinese mandarino).
Quali conseguenze per la dottoressa? Chissà. Chi ha provato a contattarla non ci è riuscito nemmeno a telefono. "Se avessi immaginato quel che sarebbe successo - ha detto - non mi sarei curata della reprimenda. Ne avrei parlato a chiunque e dovunque avessi potuto."