Un’Europa unita sul negoziato per la Brexit e sulla prospettiva di una difesa comune (possibile proprio grazie alla prossima uscita del Regno Unito), ma ancora divisa, come ha sintetizzato il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, fra nord e sud sul futuro dell’Eurozona e fra est ed ovest sulla gestione dei migranti. E’ l’Unione europea che emerge dai due giorni dell’ultimo vertice di un anno difficile, partito all’ombra dell’antieuropeismo dell’appena eletto presidente Usa Donald Trump e costellato di appuntamenti elettorali nazionali dagli esiti pericolosi per la costruzione comunitaria.
Dopo la celebrazione dei 60 anni del trattato di Roma e l’iniziativa italiana per il rilancio dell’Ue, l’elezione in Francia di un presidente europeista come Emmanuel Macron ha compensato l’andamento della politica in altri paesi e la momentanea “crisi” di Angela Merkel, ancora al lavoro per formare la nuova coalizione di governo in Germania.
Gli equilibri in evoluzione
I temi che si ripresenteranno l’anno prossimo sui tavoli di Bruxelles non cambiano, ma la tabella di marcia è stata precisata e gli equilibri fra i 27 sono in evoluzione, mentre si avvicina la prossima scadenza elettorale europea, quella della primavera 2019. Entro allora le istituzioni Ue dovranno aver risolto diverse delle questioni in sospeso: la Brexit (l’uscita del Regno Unito è prevista per il marzo 2019), la riforma del regolamento di Dublino (a giugno del prossimo anno), la riforma della governance nell’Eurozona (nuovo vertice Euro a marzo per una tabella di marcia precisa entro giugno 2018).
Nel frattempo, ci sono altri dossier importanti su cui avanzare, in politica estera e gestione “esterna” dell’immigrazione. Proprio questo aspetto internazionale è stato quello in cui, negli ultimi tempi, l’Europa si è dimostrata più unita: non solo nella messa a punto della cooperazione rafforzata strutturata fra 25 paesi (fuori solo Danimarca e Malta, oltre al Regno Unito) con 17 progetti Pesco nel campo della difesa già pronti a partire nei prossimi mesi.
L’unità è emersa anche nel sostegno all’Italia nella gestione dei flussi migratori dalla Libia e nella posizione comune di contrasto alle decisioni clamorose del presidente degli Stati Uniti. Dalla messa in discussione dell’accordo sul nucleare iraniano al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, il capo della diplomazia europea Federica Mogherini ha avuto ultimamente il ruolo di rappresentare la voce dei 27 in modo chiaro, con l’obiettivo di far tornare l’Europa un riferimento per quelle aree del mondo che si sentono “orfane” degli Stati Uniti.
Quanto all’immigrazione, l’Italia ha ottenuto il riconoscimento e il sostegno che chiedeva da tempo nella gestione dei flussi dalla Libia, mentre la divisione resta ancora molto forte sulla questione del ricollocamento. I 4 paesi di Visegrad, Repubblica ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria hanno avuto nel presidente (polacco) Tusk il portavoce istituzionale dell’opposizione alle quote obbligatorie, e hanno incassato il sostegno “esterno” dell’Austria di Sebastian Kurz.
Gentiloni: "Un punto di principio"
Paolo Gentiloni, che ieri ha partecipato a una riunione in cui i 4 paesi dell’Est hanno assicurato un contributo finanziario di 35 milioni per l’azione italiana in Libia, ha definito “inaccettabile” la loro mancanza di disponibilità. “Per noi – ha detto – è un punto di principio, non possono esserci decisioni optional da parte dell’Ue”. Per quanto riguarda la Brexit, Gentiloni condivide il punto di vista del presidente Tusk e di altri leader: la seconda fase, quella sulle nuove relazioni, “sarà molto complicata" e "non sarà un regalo" per Londra. Oltre che sui temi legati all’immigrazione, il nuovo premier di Varsavia Mateusz Morawiecki è stato interpellato in questi giorni sulla delicata questione del rispetto dello stato di diritto in Polonia.
Se non riuscirà a rassicurare Bruxelles sulle recenti decisioni che hanno reso meno indipendente il sistema giudiziario dal potere politico, la Commissione deciderà di applicare per la prima volta nella storia dell’Unione l’articolo 7 del trattato, secondo il quale i paesi possono sospendere alcuni dei diritti di uno Stato, compresi i diritti di voto nel Consiglio.