Alla fine i due più riottosi hanno avuto la meglio. Ma Giovanni Toti e Mara Carfagna alla guida di Forza Italia, come coordinatori, l’uno al Nord l’altra al Sud, sono più un coupe de theatre o “la mossa del cavallo”? Forse entrambe le cose. Ma anche l’unica mossa possibile per far uscire dalle sabbie mobili in cui era precipitato il venticinquennale partito di Berlusconi, uscito dall’ultima prova elettorale europea in maniera del tutto deludente. È un po’ questa la lettura quasi unanime sui quotidiani. Ed “è comunque la mossa che fa Silvio Berlusconi per evitare che Forza Italia si sfaldi, per spinte centrifughe e per continua emorragia di voti”, sottolinea il Corriere della Sera.
È certo un colpo di scena se ancora due giorni fa Silvio Berlusconi si scagliava contro la figura politica da lui costruita, portata al partito dalle reti Mediaset, da Studio Aperto, il Tg di Italia1 prima, e dal TG4 poi, il suo delfino, “avvertendolo che se se ne fosse andato non avrebbe preso ‘più dell’1%’”. “Ma la decisione di Toti di tenere duro sulla sua convention per la costituente di un nuovo partito (prevista per il 6 luglio, che diventerà ora un’iniziativa di partito), il seguito che stava acquisendo, la fermezza della Carfagna e del partito del Sud nel pretendere ‘un cambiamento radicale’ e soprattutto la drammatica percezione di tutti nel partito che ‘andando avanti così moriamo, perdiamo un punto a settimana’, hanno convinto Berlusconi a cambiar e rotta”.
Quindi una decisione più che altro sull’onda della disperazione, quella presa dal fondatore di Forza Italia di designare i due nuovi coordinatori. E servirà a chetare le acque e sedare i dissidi interni e le rivalità? “E siccome però i mal di pancia vanno tenuti a bada, Berlusconi resterà presidente, Tajani per un po’ ancora vice, mentre le capigruppo Bernini e Gelmini entreranno nel gruppo di testa incaricato di modificare lo Statuto. Un contentino”, risponde all’interrogativo la Repubblica in una cronaca, che spiega anche che si tratta di “una scelta che è la rappresentazione plastica del gigantesco compromesso raggiunto dopo mesi di guerriglia interna. Lo è la diarchia Toti-Carfagna, pensata per tenere insieme la spinta salviniana del Nord con quella anti-salviniana del Sud”.
Una scelta fatta e una decisione presa perché Berlusconi è convinto che il governo abbia i giorni contati e che a settembre si tornerà a votare, quindi per tenere unita Forza Italia e anche per “evitare l’Opa ostile della Lega e scongiurare la rottura definitiva della sua creatura proprio alla vigilia delle elezioni”. Ma sulla “guerriglia interna” non si sa quanto effetto avrà la mossa. Perché da un lato non s’è ancora consumata o sopita a battaglia fra dame consumata all’ombra del capo: “da una parte Marina Berlusconi in asse con Licia Ronzulli, che premevano per il governatore ligure e l’abbraccio con la Lega (a difesa degli interessi Mediaset); dall’altra Francesca Pascale, che in tandem con “l’ex badante” Maria Rosaria Rossi sponsorizzavano invece l’amica Mara. A lungo in predicato per raccogliere, da sola, il testimone, senza tuttavia riuscirci. Almeno per adesso. Lei ci crede ancora” fotografa la situazione sempre la Repubblica.
Per il momento, dunque, Toti-Carfagna è più che altro una “diarchia”, che forse è solo “il preludio della sfida che si giocherà a fine anno: se si faranno le primarie, sarà Carfagna contro Toti. Non è un caso che lui abbia rifiutato di disdire la convention al teatro Brancaccio: doveva sancire la scissione, servirà a battezzare la sua corrente e a mobilitare le truppe. Berlusconi ha tentato di fargli cambiare idea, ma non c’è stato verso” tira le somme il quotidiano diretto da Carlo Verdelli.
Fin qui gli osservatori neutrali e il fronte avverso. Poi c’è quel che pensa lo schieramento amico. Così sull’edizione cartacea de Il Giornale, quotidiano della famiglia di Arcore, il direttore Alessandro Sallusti osserva che “a un passo dal baratro, Forza Italia evita il precipizio e prova a rimettersi in carreggiata dopo il non esaltante risultato elettorale alle Europee”. Evitando la scissione preannunciata da Toti e chiamando a responsabilità la Carfagna. Sallusti non la chiama diarchia, bensì “duopolio”.
“In ogni caso una buona notizia” la definisce il direttore, “perché significa che resta viva la possibilità per l’area liberale e moderata del Paese di continuare ad avere una rappresentanza politica non marginale, che seppure oggi in difficoltà ha la speranza di risalire la china e tenere viva una alternativa elettorale – il centrodestra - all’attuale maggioranza gialloverde. Che è poi quello di cui abbiamo bisogno noi, ma anche Matteo Salvini quando deciderà di svincolarsi dall’abbraccio mortale di Di Maio e soci”. Ma è ancora presto per immaginare e parlare di nuovi scenari.
Su Libero, quotidiano con più spiccate simpatie leghiste che forzaitaliote, il direttore Pietro Senaldi ironizza sui nuovi vertici di Forza Italia e, in particolare sul destino di Toti, con questo incipit dal quesito retorico: “Alzi la mano chi aveva creduto che avrebbe abbandonato la casa madre per fondare un partito in grado di svuotare Forza Italia e occupare il centro moderato”. Risposta: “Forse neppure lui, Giovanni Toti da Mediaset, a lungo delizia e recentemente croce del Cavaliere di Arcore, che lo ebbe come direttore di ben due tiggì”.
Il quale Toti, scrive Senaldi “alle Europee del 2013 egli fece il pieno di preferenze (150mila) e subito dimostrò di voler giocare la partita da solo. Poiché si era dimostrato bravo e desideroso di autonomia, Forza Italia, come è uso della casa, cercò di deviarlo su un binario morto, candidandolo come presidente della Liguria, nel 2015, una stampella lanciata contro i grillini in una Regione da sempre rossa. Toti a sorpresa vinse e cominciò a staccarsi sempre più, naturalmente solo a parole, dal suo antico datore di stipendio e di seggio”. Anche se era più facile incontrarlo alle feste della Lega o di Fratelli d’Italia, tanto che “ci sono in giro più foto recenti di lui con Salvini, Zaia, Fontana o la Meloni che con Berlusconi o Tajani” chiosa il direttore di Libero.
Comunque sia, “il governatore non è un fesso, e il passo definitivo di lasciare la casa madre non l’ha mai fatto, come del resto Berlusconi, pur stramaledicendolo in privato ancora più che in pubblico, non l’ha mai cacciato. Hanno avuto ragione entrambi (…) A un malato grave anche un raffreddore può essere fatale (…) Le scissioni uccidono chi le fa più che chi le subisce, Salvini è troppo forte per farci affidamento e, per diventare un pretoriano della Meloni, tanto vale restare un portabandiera di Arcore”, Un segnale e un altolà alla Lega.