La cosa dovrebbe avvenire alla ripresa, dopo la fine delle vacanze natalizie e, soprattutto, chiuso almeno per il momento il capitolo della legge di bilancio. A rilanciare l’idea (un primo lancio risale allo scorso settembre, proprio nel momento in cui diveniva più caldo il confronto-scontro con l’Europa) uno dei due vicepremier, Luigi Di Maio.
Ma l’altro vicepremier, Matteo Salvini, ha ripreso prontamente l’idea. Tanto prontamente da far pensare ad un’azione concordata.
Insomma, il governo gialloverde ha intenzione di presentare alle Camere un progetto di riforma costituzionale per ridurre drasticamente il numero dei parlamentari. Deputati e senatori, ha detto per primo il capo politico del M5S, saranno chiamati ad un taglio spontanei degli scranni, e da 945 che sono ora (lo stabilisce la Costituzione, e questo spiega il rango della riforma e le procedure con doppia lettura che saranno necessarie) si autoridurranno.
I numeri sono ancora da stabilire
Di quanto? Il contratto che è alla base dell’alleanza di governo parla chiaro: diventeranno “400 deputati e 200 senatori”. Questo, si legge nel documento sottoscritto lo scorso maggio, renderà “più agevole organizzare i lavori delle Camere e diverrà più efficiente l’iter di approvazione delle leggi, senza intaccare il principio supremo della rappresentanza”.
Di Maio, parlando l’altro giorno a Lavarone, ha confermato la cifra, preannunciando: “taglieremo 345 parlamentari dal plenum della Camera e del Senato”. Ma Salvini, che in quel momento era ad un appuntamento della Lega, si è spinto più in là: “entro il 2019 verrà varata la riforma costituzionale per dimezzare il numero dei parlamentari”. A conti fatti, sarebbe una sforbiciata ancora più pesante, perché si tratterebbe di arrivare a circa 472 parlamentari, e non 600 come previsto dal contratto di governo e dallo stesso Di Maio.
In più resta da chiarire un punto: cosa fare dei senatori di diritto e di quelli di nomina? Fanno parte della prima categoria gli ex Presidenti della Repubblica (al momento il solo Giorgio Napolitano), mentre la questione dei senatori a vita è più complessa. La Costituzione dice che il Presidente della Repubblica ne può nominare fino a cinque (e qui si pare la questione se sia ogni singolo presidente a poterlo fare, o l’istituzione in quanto tale). Al momento il destino dei senatori non passati per le urne elettorali non è ancora segnato.
Ad ogni modo, potrebbe rivelarsi faccenda di importanza secondaria di fronte ad altre questioni.
Un precedente pericoloso
La prima è tutta politica, e qualcuno l’ha sollevata non senza malizia. Anche Matteo Renzi, è stato osservato, avviò le riforme costituzionali all’apice della gloria e ne finì vittima, accoltellato da un referendum. Lui, addirittura, voleva l’abolizione del Senato intero, senza se e senza ma.
La seconda sono i tempi. Salvini ha parlato esplicitamente di approvazione “entro la fine del 2019”. Un anno esatto, insomma. Che però per una riforma costituzionale non è poi molto (ci vogliono quattro sì incrociati allo stesso testo di Camera e Senato). Allora occorre sbrigarsi: presentare il progetto di riforma al massimo alla fine di gennaio e avviare il confronto.
Un'arma di distrazione di massa?
E qui si potrebbe dare anche una seconda lettura dell’uscita quasi in contemporanea di Salvini e Di Maio. Questa: a primavera, e nella successiva campagna elettorale per le europee, l’attenzione generale potrebbe finire per essere focalizzata dalla questione del numero dei parlamentari, facendo passare in second’ordine ogni eventuale nuovo scontro con l’Ue e anche la applicazione depotenziata, rispetto alle attese, di riforme come Quota 100 e reddito di cittadinanza. In più l’alleanza di governo potrebbe rilanciarsi agli occhi dei non pochi delusi proprio dal risultato del confronto con Bruxelles.
Altro discorso il problema dei numeri con cui si arriverebbe all’approvazione della riforma. Non è impossibile immaginare che non verranno raggiunti i due terzi dei parlamentari consenzienti, cifra essenziale per mettere la nuova norma al riparo da un referendum confermativo (come era quello di Renzi, e mal gliene incolse). Una prospettiva cui Di Maio guarda in queste ore ostentando sicurezza. “Se lo vogliono, andremo anche il referendum. Voglio vedere quanti voteranno contro il taglio”.