"Bruxelles è una istituzione a cui diamo 20 miliardi di euro ogni anno e ne prendiamo indietro 11. Ogni anno, quindi, diamo 9 miliardi all'Ue. Non ci può dire quali tasse tagliare. Se Bruxelles ti boccia la legge di Stabilità tu gliela restituisci tale e quale e fa uno pari".
E ancora: "Bruxelles non ha nessun titolo per intervenire nel merito delle misure, Bruxelles non è il nostro maestro, la subalternità italiana in questi anni è stata particolarmente sviluppata nei confronti dei burocrati di Bruxelles". Parola di Matteo. No, non Salvini che, anzi, negli ultimi tempi pare pure orientato a utilizzare toni più distensivi nei confronti della Commissione Europea. A pronunciare queste frasi, che oggi appaiono perfettamente in linea con la retorica del governo gialloblu, fu l'allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in un'intervista a Radio 24 del 16 ottobre 2015. Anche allora il motivo del contendere era la manovra, con Roma che cercava di guadagnare spazi di flessibilità rispetto agli odiati parametri di Maastricht. La storia, quindi, si ripete.
Sulla Stampa di mercoledì, Marco Zatterin ricordava come quasi ogni legge di bilancio presentata dall'Italia negli ultimi anni abbia portato a un duro confronto con le istituzioni comunitarie, persino quando a Palazzo Chigi c'era il tecnico Mario Monti.
Solo Renzi, forte di un mandato popolare allora robustissimo (il famoso 40% alle elezioni europee del 2014), utilizzava però parole, argomenti e accenti paragonabili, se non sovrapponibili, a quelli utilizzati oggi dai capi di Lega e Movimento 5 stelle.
L'Europa come club di grigi tecnocrati che soffoca le legittime ambizioni di crescita dell'Italia, che ci volta le spalle di fronte all'emergenza migratoria, che ci danneggia con le sanzioni alla Russia, che fa figli e figliastri, adottando doppi standard dei quali beneficia l'eterna rivale: Parigi. Tutto già sentito, quindi. Sovranismo ante litteram, seppure con l'obiettivo di cambiare la Ue dall'interno. Non deve perciò stupire l'aplomb con il quale Jean-Claude Juncker e Pierre Moscovici stanno reagendo a certe intemperanze verbali dei due attuali vicepremier. A Bruxelles, oltre ad avere parecchie cose da rimproverarsi, ci sono abituati.
Volontà di potenza
La differenza, sottolinea Zatterin, era che "mentre Renzi attaccava la Commissione, Pier Carlo Padoan con lo staff del Tesoro trattava dietro le quinte con gli uomini della direzione Ecofin. Così, un mese più tardi, l'Italia guadagnava ancora ossigeno nonostante il debito mostruoso e i conti che tornavano a metà".
Un'altra differenza, aggiungiamo, è che Padoan era inattaccabile, era il pilastro sul quale si reggeva la credibilità in Europa dei governi a guida Pd. Una posizione solida della quale il suo successore, Giovanni Tria, non gode affatto, considerando quante volte, da quando è a via XX settembre, è stato dato prossimo alle dimissioni.
Tornando alle analogie, va però detto che gli scontri di Renzi con Bruxelles non furono limitati alla manovra, ma furono una costante del suo mandato, teso a far guadagnare all'Italia quel ruolo di potenza di primo piano che in Europa non era mai riuscita a conquistarsi.
Emblematico fu quel vertice di Ventotene con Angela Merkel e Francois Hollande. Era il 22 agosto del 2016. La Gran Bretagna aveva appena votato a favore della Brexit, lasciando libero uno spazio che, per l'ex sindaco di Firenze, doveva essere riempito dall'Italia. Un progetto mai portato a termine a causa della debacle del referendum costituzionale di dicembre, che concluse due anni, nove mesi e venti giorni segnati da polemiche con Bruxelles che toccarono livelli di virulenza elevatissimi.
Lo scontro con Juncker (sul 2,4%)
Uno degli scontri più clamorosi risale al 14 novembre 2016, poco prima delle dimissioni. Renzi si era visto negare la richiesta di maggiore spazio di manovra per finanziare la ricostruzione delle aree terremotate. Nello specifico l'Italia aveva portato il deficit previsto in manovra dall'1,7% al 2,4% (a proposito di corsi e ricorsi storici), incontrando una durissima opposizione da parte di Juncker, i cui rapporti con Renzi toccarono allora i minimi storici. Ricordando i 19 miliardi di flessibilità aggiuntiva che gli erano già stati concessi, il presidente della Commissione aveva accusato l'ex premier di essere "litigioso" e di cercare a tutti i costi la polemica con Bruxelles. "L'Italia deve obbedire", tuonò. Per tutta risposta, in conferenza stampa, l'allora inquilino di Palazzo Chigi compì un gesto senza precedenti: eliminò la bandiera della Ue. Alle sue spalle solo sei drappi tricolori. Romano Prodi, padre nobile del suo partito, parlò di un "colpo al cuore". In compenso, arrivarono dalla Francia i complimenti del Front National.
Lo schiaffo di Bratislava
Gli ultimi mesi del mandato di Renzi furono forse quelli caratterizzati dalle polemiche più violente con la Ue. Lo spirito di Ventotene si sarebbe infatti guastato in fretta. Renzi sperava che il vertice sull'isola dove Altiero Spinelli fu mandato al confino avrebbe inaugurato una nuova governance europea a tre. Nemmeno un mese dopo, al Consiglio Europeo di Bratislava, il 16 settembre, la conferenza stampa finale resterà invece nel tradizionale formato a due: la cancelliera tedesca e il presidente francese. Renzi non nascose affatto l'ira per l'esclusione. Bocciò le conclusioni del vertice (pur avendole firmate), che non accoglievano le richieste dell'Italia in materia di crescita e immigrazione, e arrivò a liquidare il summit come una "bella crociera sul Danubio". Merkel evocò comunque uno "spirito di Bratislava". "Altro che spirito di Bratislava, se si va avanti così, presto parleremo del fantasma dell'Europa", replicò, profetico, in un'intervista al Corriere nella quale attaccò in un colpo solo Francia, Germania e Spagna per la violazione sistematica delle regole europee su bilancio e surplus commerciale.
Con Berlino un rapporto difficile
Con Angela Merkel i rapporti erano particolarmente complicati, come lo sono ora, per motivi non troppo dissimili, quelli tra la cancelliera e Macron. Merkel non ama le personalità troppo esuberanti e, soprattutto, non ama che la sua leadership venga messa in discussione (Hollande, debole e remissivo, era invece uno sparring partner perfetto). Lo scontro più duro risale a un bilaterale di Bruxelles il 15 dicembre 2015. Nei circoli europei, Renzi si era già fatto la fama di interlocutore brusco ed egocentrico, scrisse Politico, e "spesso difficile" era stata definita la sua relazione con il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, che aveva accusato di "non aver rispettato il popolo italiano" quando aveva accostato Roma all'Ungheria di Orban in un appello perché tutti i Paesi Ue facessero la loro parte nel controllo dei flussi migratori.
"Non puoi certo sostenere di star dando il tuo sangue per l'Europa" fu la frase di Renzi che gelò Merkel. Il casus belli era stato il rifiuto tedesco di una garanzia per i depositi comune. Renzi si tolse però parecchi sassolini dalle scarpe, accusando Merkel di aver lucrato sulla crisi della Grecia accaparrandosi gli aeroporti ellenici privatizzati. I motivi di frizione con Berlino erano del resto numerosi. Alla polemica contro la dottrina dell'austerità e a quel surplus commerciale tedesco fuori ogni regola si è già accennato.
Una questione quasi personale riguardava però le sanzioni alla Russia, Paese che, nonostante lo scontro sull'annessione della Crimea, continua a vantare in Berlino e Roma i partner europei più stretti. Proprio sull'onda di quelle sanzioni (che Berlino spesso aggira), l'Italia era stata costretta a rinunciare al progetto di gasdotto South Stream, che l'avrebbe unita ai giacimenti russi senza passare per l'Ucraina. Un analogo progetto con approdo in Germania, il North Stream II, non ha invece avuto la stessa sorte.
Proprio i rapporti con la Russia erano stati un altro importante punto di scontro con i partner. Renzi non aveva mai nascosto la sua opposizione alle sanzioni contro Mosca, per il loro impatto sull'economia italiana e sugli storici rapporti tra i due Paesi. Una delle sue ultime battaglie in Europa fu il tentativo di farle saltare o, quantomeno, non renderne più automatico il rinnovo. Una battaglia ora ereditata da Di Maio e Salvini. Chissà, data la virulenza con la quale lo ha smentito durante l'ultima Leopolda, forse è vero che il leader del Carroccio ogni tanto lo chiama per chiedergli consigli.