Silente da giorni, lontano da taccuini e telecamere, Matteo Renzi è descritto, da chi ha modo di parlargli in queste ore, come irrequieto, "un leone in gabbia". L'ex segretario non ha il profilo di chi sa attendere che le ceneri del disastro si siano posate: scalpita, ha voglia di rimettersi subito in gioco. Altro che trasmissioni su Netflix. Il problema è che la strada per lui e per i renziani è stretta.
Secondo Orfini, è colpa di Minniti
La responsabilità del triplete negativo collezionato dal partito - referendum, politiche e, ora, amministrative - viene fatta ricadere, in un modo o nell'altro, su di lui. Carlo Calenda (che insiste su Gentiloni come 'punto di riferimento' e pubblica sul Foglio il suo manifesto per un 'Fronte repubblicano'), ad esempio, dice in una intervista di non voler cercare i nomi dei colpevoli, ma poi accusa un certo racconto troppo ottimistico dell'Italia nel momento in cui i cittadini faticavano ancora a rialzarsi dalle macerie della crisi economica.
Un'accusa che, certo, non può essere recapitata ai predecessori di Renzi, da Enrico Letta a Pier Luigi Bersani, come viene fatto notare nei corridoi di Montecitorio. Assieme a questo c'è, poi, la difficoltà di trovare un candidato alla d'area al prossimo congresso.
L'idea di mettere in campo il nome di un big fra Paolo Gentiloni e Marco Minniti sembra accantonata dopo le intemerate di uno dei più fedeli uomini di Renzi in Parlamento: il presidente dem Matteo Orfini ha gettato addosso all'ex ministro dell'Interno, colpevole di una politica sui migranti che strizzava l'occhio alla destra, la responsabilità del disastro elettorale. E sempre sui migranti Orfini ha accusato Gentiloni di dire il falso: non è vero, cioè, che con il Pd al governo "si sono fatti fare meno affari agli scafisti".
Verso l'assemblea
Sì, ma poi un candidato renziano per cosa? L'assemblea del 7 luglio, di cui al momento c'è solo l'annuncio del presidente del partito, è considerata da molti esponenti di primo piano, soprattutto renziani, come inutile se non dannosa: "Che la facciamo a fare se al momento il solo candidato in campo è Nicola Zingaretti?".
Le opzioni in campo, per Matteo Renzi e i suoi, sono almeno quattro. Non presentarsi all'assemblea, certificando una scissione di fatto del partito. Ma si tratterebbe di una opzione non percorribile, viene spiegato. Almeno per il momento. E questo perché il nuovo soggetto che verrebbe a crearsi "sarebbe un partito dal 5 per cento", schiacciato tra Forza Italia a destra e Pd a sinistra.
La seconda opzione è virare su Nicola Zingaretti come candidato unitario, possibilità che aprirebbe la strada al segretario eletto in assemblea. Zingaretti, tuttavia, non ci pensa proprio a farsi eleggere in assemblea, preferendo la strada del congresso.
Fonti a lui vicine, infatti, spiegano che il governatore del Lazio intende allargare sì il fronte del centro sinistra, ma di avere in mente un percorso in due tappe. Una dentro il partito, da portare avanti con la fase congressuale, e la seconda da far partire dopo le primarie. L'obiettivo è quello di arrivare a un soggetto che comprenda partiti e soprattutto associazioni, movimenti, civismo, e in cui la parte del leone la farebbero gli amministratori locali a partire da sindaci come Giuseppe Sala, ma anche l'ex M5s Federico Pizzarotti.
La rete di Zingaretti
Una rete alla quale il governatore del Lazio ha lavorato a lungo e che prescinde dalla provenienza politica dei singoli. Ecco, l'attivismo di Nicola Zingaretti contrapposto all'immobilismo del resto della compagine Pd è l'elemento che sembra suscitare maggiore apprensione tra lo stato maggiore renziano che chiede al leader una presa di posizione pur che sia. Anche la presentazione di un candidato di minoranza. Ipotesi che si scontra, prima ancora che con i piani dell'ex segretario, con il suo carattere.
Renzi, viene riferito, a fare il leader della minoranza interna proprio non ci si vede. Allora meglio prendere tempo, lasciando magari le redini a Maurizio Martina, è il ragionamento tra i piu' fedeli dei renziani, piuttosto che certificare di essere minoranza e vedere andare via i parlamentari ancora fedeli all'ex premier.
Certo, "pensare di evitare l'esodo è una pia illusione", ragiona un senatore dem ricordando come i parlamentari eletti con Pier Luigi Bersani si spostarono in massa verso Renzi al momento della vittoria del rottamatore alle primarie. Spostando in avanti il momento del conteggio, tuttavia, questo passaggio potrebbe essere meno traumatico.
Da qui all'autunno passano diversi mesi, ere geologiche per come la politica si muove al giorno d'oggi. E un ritorno in campo del leader non è poi da escludere completamente. Sempre che, poi, le primarie dovessero tenersi ad ottobre. Anche dentro l'attuale minoranza orlandiana non si esclude che si potrebbe andare oltre, favorendo una fase programmatica che anticipi quella dedicata all'organigramma. E dall'entourage zingarettiano filtra l'idea di tenere il congresso nei tempi stabiliti dallo Statuto, novembre o anche dicembre, per poi fissare le primarie molto più in là, a ridosso delle Europee del 2019.