Dopo essere rimasta sostanzialmente sospesa dalla mattina del 5 marzo, riprende a scorrere la vita del Pd: fino a poco tempo fa il principale partito politico italiano, da due mesi e mezzo immobilizzato dal terrore di non saper gestire la fase postelettorale.
Si riunisce l’assemblea nazionale del partito. Dovrà esprimersi sull’avvio di un percorso congressuale, la conferma di Martina alla carica di segretario reggente, la sua eventuale sostituzione, l’indizione delle primarie. Tutto eventualmente, perché il nodo politico, almeno fino a pochi giorni fa, è stato un altro. Vale a dire: che farà Renzi?
Un leader al bivio
Gli organi del partito usciti dalla tornata elettorale portano la sua impronta: è stato lui, da segretario, a fare le liste e decidere chi sarebbe stato dentro e chi fuori. Ma la catastrofe è stata di tali proporzioni da scuotere tutto l’edificio, rileva La Stampa, e da oggi pomeriggio inizieremo a capire se il partito sia o meno monolitico come una volta.
La fronda antirenziana si va rafforzando
Premono le opposizioni interne, guidate da Franceschini e Orlando, rafforzatesi anche dopo il no di Renzi ad un accordo di governo con i 5 Stelle. E quella che settimane fa sembrava una battaglia quasi avventata, oggi tale non pare più, soprattutto adesso che, scrive La Repubblica, anche la figura di Martina si è rafforzata grazie all’appoggio di Zingaretti.
"Evitiamo di contarci"
La notizia delle ultime ore è stato l’appello firmato da una serie di big del partito per evitare una conta che farebbe probabilmente male a tutti. La conta scatenerebbe infatti le tensioni, porterebbe alle decisioni estreme, indebolirebbe chi resta e chi se ne va. Ma ugualmente non è certo chi sarebbe a restare, e chi ad andarsene.
Per questa ragione, probabilmente, lo stesso Matteo Renzi ha fatto filtrare la voce per cui sarebbe disposto a non intervenire, o comunque a rinunciare alla versione più al peperoncino del suo discorso. Tutto però dipenderà dalla piega che prenderà il dibattito, e dalla relazione del reggente Martina.
Anche i sostenitori esterni sbuffano
Qualcuno intanto chiede che il partito, nato anno fa dall’incontro delle culture della sinistra e dei cattolici democratici, ritrovi se stesso e non smarrisca la strada. Si tratta di un gruppo di intellettuali ed esponenti del mondo cattolico (spiccano Pezzotta, Balboni, Tognon, Ivaldo, Formigoni) che hanno scritto il loro nome in calce a un documento.
Affermano, tra l’altro, di non essere rimasti per nulla convinti da quattro cose. Queste: 1) la sostanziale inerzia del PD dentro la crisi politico-istituzionale che si è aperta dopo il voto; 2) la teoria decisamente confutabile secondo la quale gli elettori (compresi quelli del PD?) lo avrebbero consegnato all’opposizione; 3) il giudizio circa gli interlocutori, centrodestra e 5 stelle, certo entrambi distanti e problematici e tuttavia non equivalenti/equidistanti. Non adoperandosi di conseguenza per scongiurare l’asse tra i due, da taluni PD addirittura incredibilmente auspicato; 4) la tesi deresponsabilizzante secondo la quale ci si è rimessi al capo dello Stato, in quanto la Costituzione gli assegna un alto ruolo arbitrale e prescrive semmai ai partiti il dovere di avanzare proposte di soluzione”.
Ai tempi della Dc si sarebbe parlato di un altolà mandato dagli ambienti del collateralismo cattolico. Per il Pd è una prima volta in assoluto.