La vita di Michelle Bachelet, come quella di milioni di cileni, iniziò un 11 settembre, 45 anni fa esatti. Era il 1973 ed un generale chiamato Augusto Pinochet mandò i caccia a bombardare il palazzo della Moneda a Santiago, residenza del presidente democratico Salvador Allende.
Allende fu ucciso, Bachelet ebbe il padre e la madre torturati (il padre, un generale dell’aeronautica antigolpista, morì a causa delle sofferenze) e venne torturata lei stessa. Dovette andare in esilio in Australia per salvare la pelle. Difficile pensare che, quando si tratta di diritti umani, sia una che parli a vanvera.
Nello stesso studio di Allende
Tornata in Cile, inizia la seconda fase della sua vita: medico psichiatra, specializzata nelle patologie dell’infanzia e dell’adolescenza presenti tra i ragazzi vittime di abusi e torture. Ma a lei, che il giorno dell’arrivo di Pinochet era già iscritta alla gioventù del Partito Socialista, il destino riservava la carriera politica: ministro della salute, della difesa (una bella rivincita, vista la storia familiare) e poi Presidente della Repubblica. Le si aprono le porte dello studio di Salvador Allende per due volte: nel 2006 e poi ancora nel 2014. È la prima donna presidente del suo Paese e il primo politico cileno ad essere rieletto alla massima carica nazionale dopo otto decenni. Guida un Cile segnato dagli enormi problemi sociali ma che può godere dell’insperata fortuna derivante dal decollo dei prezzi del rame, e tra un mandato e l’altro scopre la sua nuova vocazione. Le Nazioni Unite.
Dalla Moneda al Palazzo di Vetro
Il periodo tra il 2010 ed il 2014 la vede sottosegretario generale dell’Onu e direttore esecutivo di U.N. Women, il nuovo ente impegnato nella parità di genere. La nota il futuro segretario generale, Antonio Guterres, e quando lei è di nuovo libera dagli impegni a casa la propone per un posto che scotta, quello di presidente del Consiglio sui diritti umani.
Il silenzio non ti fa rispettare da nessuno
Non è un bel regalo: mai come ora i rapporti con gli Usa sono a un minimo storico, e gli Usa sono il principale finanziatore del Palazzo di Vetro. Quanto poi all’alto commissariato sui diritti umani, un’altra donna, la rappresentante di Trump Nikki Haley, ha lasciato fragorosamente il consesso accusandolo di ipocrisia e ignoranza. Lo stesso predecessore di Bachelet, il giordano Zeid Raad al-Hussein, principe di una dinastia filoccidentale come quella hascemita, ha avuto una lunga serie di scontri con Washington, e non solo. Al momento di lasciare l’incarico, un mese fa, ha confidato ai giornalisti che Guterres in persona qualche volta gli ha chiesto se fosse davvero necessario usare certi toni, certi frasari. “Ho preso le sue esortazioni come consiglio informali di un amico personale”, ha chiosato al-Hussein. Traduzione: ho fatto quello che mi pareva.
Anche perché “il silenzio non ti fa guadagnare il rispetto di nessuno”. Un principio che Bachelet sembra aver fatto immediatamente suo, se già nel suo discorso di insediamento ha annunciato: "Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e razzismo contro migranti, persone di origini africane e rom".
Il governo italiano, difficilmente paragonabile ad una giunta militare sudamericana, ha reagito con composto dissenso (Moavero Milanesi) e aperta insofferenza (Salvini). Ma adesso il caso è aperto. E la signora Bachelet non è tipo da voler passare per chi ha accettato di stare zitta. Nikki Haley è avvertita, e anche Donald Trump.