AGI - Era nel sedile posteriore della Fiat 132 del padre, la mattina del 6 gennaio 1980, in via Libertà, a Palermo, assieme alla nonna materna, Franca Ballerini. Nei sedili anteriori c'erano appunto il papà, Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, e la mamma, Irma Chiazzese. Il killer si avvicinò rapidamente, dopo che Mattarella aveva tirato fuori dal garage di famiglia la 132 ed era risalito a bordo, dopo avere richiuso il cancello. La scorta non c'era, era domenica, era l'Epifania, il presidente l'aveva lasciata libera.
L'assassino sparò e lei, Maria Mattarella, non ebbe il tempo di rendersi conto di quel che stava accadendo al capo della Giunta regionale e alla Sicilia intera, anche all'Italia, allora quanto mai inconsapevole della pericolosità reale della mafia. Scene concitate, la pistola che dopo i primi colpi si inceppa, il sicario con andatura dinoccolata, ballonzolante, che torna verso la 127 bianca da cui era partito, prende un'altra pistola e torna a finire la vittima designata, già agonizzante, mentre le tre donne in auto urlavano e Irma Chiazzese, la moglie del presidente, cercava di fare scudo col proprio corpo al marito, rimanendo ferita dalle schegge prodotte dai colpi esplosi dall'assassino.
Chissà quante volte questa scena tremenda è ripassata sotto gli occhi della allora diciottenne Maria Mattarella, chissà se quella espressione spesso triste fosse figlia di quel delitto che, almeno per quel che riguarda gli esecutori materiali e dunque in primis il killer, non ha mai avuto piena giustizia. Quel che successe dopo fu immortalato dall'obiettivo di una grande fotografa, Letizia Battaglia, che passava di là per caso, col compagno Franco Zecchin, quella mattina di gennaio di 44 anni fa, e scattò a più non posso, senza avere capito che si trattava di un delitto eccellente, uno dei tanti, troppi, della Sicilia di quegli anni di piombo mafioso.
L'obiettivo di Letizia Battaglia inquadrò anche un uomo nemmeno quarantenne, con un maglione chiaro e spessi occhiali di tartaruga da miope, che cercava di estrarre il corpo del ferito dall'auto, per sperare in soccorsi impossibili, per un uomo più volte colpito alla testa. L'uomo dal maglione chiaro era lo zio di Maria Mattarella, Sergio, il fratello di Piersanti.
Quella mattina, tra il sangue e i frammenti del cristallo dei finestrini, mandati in frantumi dal killer di Cosa nostra (ma con una mano forse del terrorismo eversivo di estrema destra e con un'altra dei Servizi deviati), si suggellò un legame indissolubile, quello tra zio e nipote, tra il futuro presidente della Repubblica e la figlia - i figli, l'altro è Bernardo - del presidente della Regione ucciso per mano mafiosa, ma su più che probabile input dall'interno del partito del presidente, la Dc, dalla componente corleonese rappresentata in particolare da Vito Ciancimino.
Sergio Mattarella di quel partito fu poi commissario a Palermo, fu ministro più volte, dopo essere stato catapultato dalla sua realtà accademica di studioso del diritto e di docente universitario della facoltà di Giurisprudenza alla politica attiva, all'epoca nemmeno immaginata. E soprattutto si vincolo' a quel rapporto con i nipoti, figli di Piersanti, rimasti orfani in quel modo, un crimine atroce che aveva segnato l'attacco alle istituzioni contro l'uomo che rappresentava l'Isola e la sua voglia repressa di cambiamento.
Maria Mattarella era cresciuta con quel rapporto privilegiato con lo zio, aveva conseguito la stessa laurea in Giurisprudenza, aveva lavorato nella pubblica amministrazione, fino all'incarico di segretario generale della presidenza della Regione, ottenuto alcuni anni fa e che gli aveva dato l'opportunità di vivere e lavorare negli stessi luoghi e uffici in cui il padre aveva esercitato il proprio mandato. Poco meno di dieci anni fa, il 5 marzo 2015, Maria Mattarella aveva perso il marito, Alessandro Argiroffi, stroncato, all'età di 56 anni, da un male incurabile, come lei oggi che di anni ne aveva 62 nella sua casa di Palermo. Non si era arresa, come non si arrese dopo quel tremendo 6 gennaio 1980.