AGI - Al Partito Democratico serve, nell'ordine: "un congresso profondo", "un reset", "una rifondazione", "un aggiornamento", "uno smantellamento". Il tutto accompagnato dalla più classica delle frasi che ha accompagnato il Pd nei suoi 15 anni di vita: "Non basta cambiare il segretario".
Fatto sta che a dirlo sono sono esponenti di spicco, sindaci e amministratori locali, ministri e parlamentari dem. Tutti candidati o 'sponsor' di candidati alla segreteria Pd. Mentre Enrico Letta lavora in silenzio - l'ultima sua dichiarazione risale a lunedì mattina - sui dossier che riguardano il ruolo che attende il partito alle Camere, primo fra tutti le presidenze delle commissioni di garanzia, fioccano le autocandidature per il Nazareno. La prima in ordine di tempo è quella di Stefano Bonaccini, nome su cui punta Base Riformista, area che si raccoglie attorno a Lorenzo Guerini.
Il caso Schlein
Il presidente dell'Emilia-Romagna non ha ancora sciolto la riserva, ma parla già da candidato quando dice che "non è il momento di partire dai nomi e dai cognomi, è un momento di rigenerazione del partito, discutere dei contenuti". Il nome di cui si parla con insistenza in chiave anti Bonaccini è quello della sua vicepresidente, Elly Schlein. In prima fila durante la campagna elettorale, Schlein si è guadagnata il titolo di "Alexandria Ocasio Cortez d'Italia", grazie a un titolo del Guardian che la paragonava alla deputata dell'area radicale dei dem statunitensi.
Il nome di Schlein viene fatto da più parti, ma lei non si è ancora pronunciata sul punto. A scandagliare dirigenti e parlamentari uscenti del Pd, tuttavia, in pochi sembrano credere in questo derby emiliano: "Un congresso in cui si fronteggiano un presidente di regione e la sua vice non è dato in natura", viene spiegato da fonti Pd".
Se poi vince Schlein, Bonaccini governerebbe da sconfitto dalla segretaria del suo stesso partito?", ci si chiede. In campo anche i sindaci: da Matteo Ricci a Dario Nardella, passando per Antonio Decaro le fasce tricolori dem sembrano aver avviato un congresso nel congresso, a partire dai rispettivi territori.
Anche qui, la base di partenza è sempre la necessità di ripensare il partito dalle fondamenta. "Dobbiamo avere a capacita' di rimettere in moto una speranza, per un popolo arrabbiato e avvilito. Dobbiamo trovare lo spazio per ripensare un soggetto politico che è nato 15 anni fa e che deve riaggiornare il suo pensiero, la sua azione", dice Ricci, sindaco di Pesaro e coordinatore dei sindaci dem. "In questo scenario nessuno si può tirare indietro. E i sindaci non possono sottrarsi".
Il nodo dei capi corrente
Infatti, non si sottraggono né Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente Anci, né il primo cittadino di Firenze, Dario Nardella. Il primo non ha ufficializzato la sua discesa in campo, ma parla già come candidato quando dice che "è l'intero modello su cui il Pd si fonda che va smantellato. Basta con i capi corrente che fanno e disfano le liste a propria immagine e somiglianza. Basta con questo esercizio del potere per il potere. Basta con l'autoconservazione come unico scopo della politica".
Sulla stessa lunghezza d'onda è il collega di Firenze: "Resettare tutto, senza metterci a fare la corsa dei cavalli", dice Nardella: "Io non mi tiro indietro se si tratta di costruire un gruppo dirigente nuovo", aggiunge. Ultima in ordine di tempo è la candidatura di Paola De Micheli, data per sicura da fonti a lei vicine. L'ex ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti è stata molto vicina al segretario Letta, in passato, ma non sarebbe una candidatura da ricollegare alla segreteria uscente, nella quale non ha alcun incarico.
Un affastellarsi di candidati e candidate che lascia perplessi i dirigenti di lungo corso del Pd. Per Romano Prodi, e' un "errore partire dai nomi. Si parta da un grande dibattito popolare, centrato su una quindicina di temi che stanno a cuore alla gente, quelli dei quali si parla a tavola: energia, scuola, salute, cambiamento climatico. "Ogni settimana una ventina di personalità, interne ed esterne al partito, ne discuta in rete con migliaia e migliaia di persone, se ne estraggano poi delle tesi sulle quali il partito dovrà misurarsi", aggiunge il Professore. Caustico Matteo Orfini: "Con una media di un paio di autocandidature al giorno, se siamo bravi nel giro di un paio di mesi possiamo arrivare a una sessantina di candidati a un congresso che non è nemmeno stato convocato. Mi pare geniale. Abbiamo capito tutto".
Una ridda di nomi che è la spia dello smarrimento dei dirigenti dem: "La verità è che siamo frastornati dalla sconfitta e non sappiamo quale sarà il percorso da qui al congresso", sottolinea una fonte Pd, "né quale sarà l'impronta che Giorgia Meloni vorrà dare alle Camere: lascerà una presidenza all'opposizione o si prenderà tutto?".
Una domanda non peregrina, visto che sugli incarichi parlamentari potrebbe aprirsi un precongresso nel Pd. Al centro dell'attenzione ci sono, in particolare, le figure dei due capigruppo di Camera e Senato. Enrico Letta ha detto, in conferenza stampa, di volersi fare garante di una "transizione equilibrata".
Una formula che in molti leggono come la volontà di lasciare le caselle di Montecitorio e Palazzo Madama a Debora Serracchiani e Simona Malpezzi. L'alternativa sarebbe quella di nominare due nuovi capigruppo scelti in base ai nuovi equilibri che si sono realizzati con le liste elettorali. Ma vorrebbe dire entrare in rotta di collisione con Base Riformista. E in ogni caso, dopo il congresso, i capigruppo vengono sottoposti alla revisione del nuovo segretario. Nicola Zingaretti, per evitare strappi, lasciò quelli scelti da Renzi. Enrico Letta li cambiò, facendo pesare la sua personale clausola paritaria e scegliendo due donne. E quello di genere è un tema che nel Pd pesa e peserà ancor più in questa fase se, come sembra probabile, a Palazzo Chigi andrà una donna.