AGI - Che ne è stato della quarta generazione, della terza fase, del governo fino al Duemila perché sono gli altri che eccetera eccetera? Tutti o quasi ora sono nel limbo delle cose incompiute o di quelle sognate, che poi è la stessa cosa soprattutto in politica. La quarta generazione non è mai sbocciata, se non in forma al massimo caricaturale. La terza fase non è mai giunta.
Il governo fino al Duemila è rimasto una chimera, anche se solo per un soffio. Ma il cerchio della Storia si è chiuso prima, implacabile, ed ora che si è chiuso anche quello della vita di Ciriaco De Mita si può dire chiaramente che davvero la Dc non tornerà mai più. La continuità è stata interrotta e seguiranno casomai solo nuove germinazioni, magari dal tronco vecchio. Ma il tronco vecchio, per l’appunto, è secco.
Ciriaco De Mita, infatti, fu colui che prese il Partito che fu il Paese e lo accompagnò, di fatto, nel suo ultimo momento di gloria. Dopo di lui la Democrazia Cristiana fu solo breve sopravvivenza, e quei momenti di successo che continuò pur ad avere furono come il rosso sulle guance delle ragazze di una volta, quando erano ammalate di tisi: salute apparente, in realtà premonizione.
Non era certo questo ciò che De Mita prevedeva, pur essendo egli una delle menti più sottili e profonde nell’analisi di un partito e di una generazione che dello spirito di finezza politica aveva fatto, ancor più che uno strumento micidiale, ragione stessa dell’essere in vita. Era capace di incantarti le ore, con quell’accento morbido all’eccesso, con le sue analisi. Analisi, del resto, in greco indica il processo dello studio all’interno di qualcosa allo scopo di individuarne gli elementi. E lui, uomo del meridione colto e studioso, di questo processo era divenuto il Maestro. Quanto al greco, vedremo poi.
Gli annali ufficiali italiani ab Republica condita, che poi sono “La cronologia della Storia d’Italia” della Deagostini, citano per la prima volta De Mita Ciriaco a pagina 631, anno domini 1964, per un atto di gagliofferia. Si era appena dimesso dal Quirinale Antonio Segni, per i postumi di un colloquio molto burrascoso con Moro e Saragat. Per la successione la Dc candidava Giovanni Leone. I partiti laici dell’arco costituzionale candidavano Saragat. Fanfani, come sempre, candidava se stesso. Che ti combina, De Mita? Finisce sospeso dal partito: lo hanno beccato a votare come piffero gli andava a lui. Siccome nessuno gli andava a genio (poco Leone, figuriamoci Fanfani) insieme a quell’altro ribaldo strutturale che era Carlo Donat Cattin aveva depositato nell’urna una scheda candida come i due asserivano essere le loro coscienze, ma non come il Partito consigliava caldamente. Ma il Partito - i partiti - a quell’epoca era cosa seria, e mica si lasciava prendere in giro troppo facilmente. Fuori un giro. Ai cavalli di razza ogni tanto fa bene mangiar la poltiglia di crusca: imparano la disciplina.
Per capire questo lato – progressivamente nascosto con il passar degli anni – del carattere di De Mita occorre un salto all’indietro nel tempo, fino ai suoi primi soggiorni romani. Non se ne è mai sentito parlar molto, di quel periodo, eppure tanta della sua Bildung viene da lì.
De Mita era infatti figlio di un piccolo sarto di un piccolo paesino, chiamato Nusco, nel cuore più profondo dell’Irpinia. Forte di un carattere poco incline a mollare (lo si è appena visto) e di doti cerebrali indiscutibili, era arrivato alla laurea alla Cattolica di Milano, dove aveva conosciuto un gruppo di coetanei dal destino per lui fatale, che gli presentarono la politica. Abbandonò per questa il suo primo amore, che era l’Accademia, e con gli amici che lo avevano iniziato ai nuovi orizzonti scese giù a Roma.
La Terza Generazione democristiana.
A Roma la Terza Generazione trovò alloggio presso una locale Mrs. Hudson, nel quartiere Prati. La Signora Valentinetti è una di quelle donne che hanno fatto la Repubblica: da lei soggiornarono, insieme a De Mita, Gerardo Bianco, Mario Agnes, persino Vincenzino Scotti. Una parte nutrita della futura Dc milanese passò da quella casa. Nel suo salotto si decidevano congressi e candidature, tra un convegno di grecisti ad Heidelberg ed una pubblicazione di giuslavorismo avanzato. E mentre si discuteva – perché anche questo era il Partito – delle riforme costituzionali e delle prospettive di un’intesa con le sinistre ogni tanto qualcuno si alzava, si vestiva da Befana e si affacciava dalla finestra che dava sul cortile interno. I bambini del palazzo ogni anno aspettavano, fiduciosi, l’appuntamento.
Un altrettanto nutrito gruppo di futuri giuristi, giornalisti, accademici, economisti e funzionari di prima fascia dell’Unione Europea entrarono, nei primi anni ’50, in quell’appartamento per uscirne diversi nello spirito. Quanto alla qualità di quello spirito, si sappia che anche loro la sera andavano in Via Veneto, ma mica a filosofeggiare. Erano specializzati nell’intrufolarsi non invitati nei ricevimenti dei grandi alberghi, e qui ci fermiamo. Sassaroli e Perozzi, siete solo dei pallidi e tardi imitatori.
De Mita intanto passava molte delle sue giornate in salotto. “Cirì, che fai?” gli chiedevano gli altri. “Sto penzando”, rispondeva lui. E loro gli davano un bottone da cucire: il padre gli aveva insegnato il mestiere. Se qualcuno ritiene che la politica sia l’arte del fare, sappia che si sbaglia di grosso, perché De Mita la politica l’ha sempre concepita così: pensiero, ragionamento. Il fare viene dopo.
Lui infatti, dopo la fase del pensiero, si dette alla politica attiva e non senza soddisfazioni. È vero: era ancora soggiornante in Prati che tentò la scalata al municipio di Nusco, ma non gli riuscì. Il resto però gli venne bene: a Nusco aveva pensato con troppo anticipo.
Entrò in Parlamento nel ’63, dopo aver scalato questa volta con successo la Dc avellinese. Riabilitato dopo la storia di Leone e Fanfani, sarebbe divenuto sottosegretario e ministro più e più volte. Ancor di più: avrebbe stretto un patto generazionale. Era il 1969, lui e un altro cavallino scalpitante e dalle gambe lunghe come tutti i purosangue, chiamato Arnaldo Forlani, si videro con Bartolo Ciccardini in quel di San Ginesio, provincia di Macerata. Tutti quarantenni, si misero d’accordo per compiere un salto di qualità generazionale che potesse permettere al Paese di vivere una nuova stagione di rilancio di fronte alle sfide del futuro in una democrazia complessa ed avanzata che raccoglieva gli interrogativi della nuova stagione. Alle corte: far fuori la vecchia guardia democristiana.
Ci riuscirono: Arnaldo segretario della Dc, Ciriaco vice. Rumor e i dorotei fuori. Andreotti sempre lì, perché quello sì che era un osso duro.
La stella, tra i due, sembrava però essere Forlani, o almeno era Forlani che lì per lì si prese il centro del palcoscenico. De Mita in prima fila, ma appena un po’ più in ombra. Così, quando nel 1982 annunciò l’intenzione di dare lui stesso la scalata alla segreteria, solo i più addetti tra gli addetti ai lavori non se ne stupirono. Avevano capito che, ancora una volta, Ciriaco usciva da una lunga riflessione in un salotto, e che avrebbe agito.
Ottenne la segreteria sulla promessa del rinnovamento, il che era comprensibile dopo il biennio della stagnazione di Flaminio Piccoli. Fece del suo per mantenerla: in Sicilia, ad esempio, individuò nel nuovo corso la figura di un giovane giurista riservato e preparato, segnato da una tragedia familiare: Sergio Mattarella. Per l’Iri, che all’epoca era tanta parte della politica economica nazionale, individuò Romano Prodi. Anche lui avrebbe fatto strada.
Insomma, aveva una certa propensione alla vocazione del king-maker. Lo dimostrò anche quando ottenne al primo colpo l’elezione al Quirinale di Francesco Cossiga. Prima di lui la botta secca era riuscita solo la prima volta, con De Nicola. Dopo sarebbe riuscito solo con Ciampi. Fu questo il motivo per cui un entusiastico Franco Evangelisti, pur andreottiano come nessun altro, uscì quel giorno da Montecitorio motteggiando la famosa frase: “Lo sai perché la Dc governerà fino al Duemila? Perché so’ l’altri che so’ stronzi”. Essendo quest’ultima parola, in romanesco, quasi un appellativo affettuoso, di condiscendenza. Più o meno come sempliciotto.
Era il 1985, De Mita era al massimo del suo fulgore. Nonostante una batosta elettorale di un paio di anni prima – in cui la Dc aveva pagato in certe aree lo scotto del suo rinnovamento – era rimasto in sella, più saldo e più forte di prima. Aveva piegato non poco le riottose correnti interne al partito, trasformando quest’ultimo da una monarchia baronale qual era in una sorta di repubblica presidenziale. E, a proposito di repubbliche presidenziali, aveva avviato il processo di revisione della Costituzione. Qui però ricevette non una delle sue peggiori sconfitte, ma uno dei suoi più grandi dolori personali.
De Mita era appena divenuto presidente del Consiglio. Il primo ad essere contemporaneamente reggitore dello Stato e reggitore del Partito dai tempi proprio di Fanfani, e la cosa faceva storcere il naso non a pochi, a Roma. Ma il colpo veramente duro gli arrivò da Forlì, dove viveva un professore universitario chiamato Roberto Ruffilli. Anche lui uno dei ragazzi della Cattolica, ma non sceso a Roma, questi era il consigliere del Principe per quello che riguardava la revisione della Costituzione.
Tre giorni l’insediamento di De Mita a Palazzo Chigi – solo tre: la cosa era evidentemente studiata da tempo – un gruppo di fuoco delle Brigate Rosse entrò in casa di Ruffilli, lo fece inginocchiare per terra e gli sparò tre colpi alla nuca. Più che un attacco terroristico sembrò un sacrificio umano. Nella rivendicazione i brigatisti scrissero che quel professore, la cui esistenza era conosciuta agli intimi e agli specialisti, era l'uomo chiave del rinnovamento, vero e proprio cervello politico del progetto demitiano", e avevano ragione. Lucidità politica spaventosa, la loro: il processo di revisione era già terminato ancora prima di iniziare. Tanta parte dei balbettamenti riformatori successivi sarebbero stati risparmiati, probabilmente, se fosse passato quel progetto. Bisogna dire che, per intelligenza e freddezza faustiana, forse mai come in quel momento le Br si dimostrarono discepoli dei Demoni di Dostoevskij.
La permanenza di De Mita a Palazzo Chigi fu il frutto di un ennesimo patto, questa volta con uno dei pochi uomini che fosse in grado di tenergli testa. Era Bettino Craxi, il segretario di un Partito Socialista da lui portato dalle secche del 6 percento alle vette del 16. Percentuali che in un maggioritario condannano all’insipienza, ma in un proporzionale possono mettere in mano le chiavi d’oro della stanza dei bottoni.
Il rapporto con Craxi fu sempre burrascoso, vuoi perché De Mita era orientato piuttosto verso un rapporto privilegiato con il Pci, vuoi perché il carattere di entrambi non aiutava, vuoi perché i socialisti erano quelli della Milano da bere, e quindi rampanti e debordanti anche in politica. Si misero d’accordo alla fine, i due, sul passaggio della staffetta: alla Presidenza del Consiglio iniziò Craxi, che aveva voglia di oscurare la stella socialista spagnola di Felipe Gonzalez, ma poi toccò a De Mita. Craxi – basti solo questo a ricordare il clima – non perdeva occasione per ricordargli che il governo, per continuare a reggere, aveva bisogno che il Presidente del Consiglio portasse tutte le mattine la colazione a letto al segretario del Psi.
Il vero pericolo, però, giunse come da manuale dalle file degli amici di partito. Il doppio incarico demitiano a Palazzo Chigi e Piazza del Gesù scatenò la reazione di antichi accoliti e vecchi antagonisti. Nacque, promossa da Forlani, la Corrente del Golfo (di Napoli): componente interna neodorotea guidata da due campani doc. Uno era Antonio Gava, l’altro – si noti – Scotti. Andreotti non si fece sfuggire l’occasione; Craxi da lontano non era per nulla dispiaciuto. De Mita a casa, con il contentino della presidenza del Partito (nulla, di fatto), Forlani di nuovo alla segreteria e Andreotti alla Presidenza del Consiglio. Era però il luglio 1989, l’estate delle rivoluzioni che chiuse il cerchio della storia per ben altri partiti. Il Caf (Craxi, Andreotti, Forlani) ballò una sola stagione.
Dopo il marasma del 1992-94 il primo era ad Hammamet, il secondo alle prese con enormi guai giudiziari (da cui uscì, dopo tanto tempo), il terzo a vita privata. De Mita era tornato a riflettere, questa volta nel suo salotto di Nusco, Ne sarebbe uscito di nuovo.
Riflettere, meditare, ragionare. Solo un intellettuale greco avrebbe fatto così. Ed infatti Gianni Agnelli intellettuale della Magna Grecia lo chiamava, con un filo di supponenza per via forse delle origini sociali o di quell’accento avellinese mai perso, che sapeva di origini preromane osco-sannitiche. Anche per questo un De Mita a cavallo dei novant’anni (90, mica 20) uscì all’aria aperta e decise l’ultima avventura, l’ultima scalata. Quella che si era dimostrata la più ostica di tutte, che gli si era negata (a lui, cui nemmeno una donna bellissima come Anna Maria Scarinzi aveva resistito), e che lui pertanto più di ogni altra cosa bramava.
La carica di sindaco di Nusco.
E questa volta il municipio cedette, crollando davanti al suo assalto come le mura di Gerico. Due mandati a furor di popolo, perché il popolo irpino non dimentica chi ha portato le strade e magari qualche pensione di invalidità. E così, mentre gruppi di cattolici di fronte allo sbando della Seconda Repubblica prendevano a sognarne una Terza che magari somigliasse alla Prima, lui chiuse il cerchio della sua carriera politica come anche della Dc, che non tornerà più o, se lo farà, sarà molto diversa da quello che era.
In quegli anni un giornalista non esente da spirito di impertinenza gli chiese, provocatoriamente, se avesse mai incontrato una persona più intelligente di lui. Sorpresa: rispose di sì.
“Uno era un mio compagno delle elementari: a otto anni sparì dalla scuola perché il padre, contadino, lo mandò a badare alle vacche”, precisò con aria meditabonda, “l’altro un collega dell’università, alla Cattolica. Alla mensa mangiava sempre con una mano sul piatto, Chiesi perché, mi dissero che lo aveva imparato, per difendersi, in orfanotrofio”. E così Ciriaco De Mita, ultranovantenne, chiuse il cerchio della sua vita con una constatazione degna di Seneca.