AGI - Ho vissuto in Texas per 13 anni. Sono arrivata a Houston nel giugno del 2008. Ero moglie, mamma e lavoravo all’Agi da 8 anni.
Non era la mia prima volta negli Stati Uniti, avevo studiato a Washington per un anno e ci ero tornata tante volte per seguire i vertici internazionali. Ma il Texas era (è) diverso, una delle prime cose che mi colpì fu come poche donne (nella classe agiata) lavorassero, erano tutte mamme perfette di tanti figli.
Scoprii che non poche avevano la pistola nella borsetta. Mi chiesi: “Ma cosa se ne fanno di una pistola, in una casa piena di bambini”?
Con il tempo capii che sì, c’era il Secondo Emendamento, quello sul diritto a portare le armi, sì, c’era la tradizione dell’America profonda, ma c’era soprattutto il sentimento di fondo di volersi sentire sicure, di potersi difendere.
Tredici anni dopo sono tornata in Italia, molte cose sono cambiate: i figli sono diventati due, Roma è molto più sporca e decadente e - mi spiace dirlo - questa città meravigliosa fa paura, oscilla tra sfarzo e tenebra.
Sono abituata alla cronaca nera, ma le notizie che ogni giorno si accumulano come montagne di sabbia sulle violenze contro le donne, sui delitti, sugli assassinii, mi inquietano sempre più. Il mio più grande timore è che questo macabro bollettino finisca per produrre assuefazione, come i dati giornalieri sui morti per Covid.
La violenza degli uomini sulle donne è diffusa, una marea montante nell'indifferenza e nel notiziario "trash", quello che cerca il sensazionale e il morboso. La violenza sulle donne è una storia diversa: si manifesta fin da quando siamo bambine, in modo latente quando non palese, si annida nei comportamenti dei ragazzini a scuola, negli apprezzamenti pesanti, magari solo per punire un rifiuto che mina la popolarità del bullo di turno, emerge perfino tra le “amiche” che improvvisamente diventano complici.
Parlo della scuola non a caso. Perché tutto comincia dalla classe e dalla famiglia. È un filo rosso che sembra non finire mai, si dipana in maniera inquietante per tutta la vita. All’università, tra le amicizie della maturità, sul lavoro, nello sport, nella politica.
Il Texas che amo è un posto particolare: è ospitale, le persone sono calorose, estroverse e generose, eppure per una donna può diventare un luogo dove vivere è un'impresa disperata: se divorzi non ti spetta nulla, anche se (è una storia vera, è capitato a una persona che conosco) hai pagato gli studi di medicina a tuo marito, quello che poi ti ha lasciato in mezzo alla strada con tre figli a carico, mentre lui gira in Ferrari. Non è violenza questa?
E fare lo stesso lavoro di un uomo ed essere pagate di meno, non è forse questa un’altra umiliazione?
Quanti capi azienda possono guardare i libri della contabilità, fare un confronto tra la retribuzione degli uomini e quella nostra e poi dire: “Sono pari”. Nella maggior parte delle aziende non si fa nulla per cambiare questo stato di cose. Non sono schiaffi anche questi?
La questione femminile non è solo il codice penale, i pugni, i calci, i coltelli, i proiettili, lo sfregio, l’acido, la segregazione, il burqa, la schiavitù che non ha bisogno di essere dichiarata, è nei fatti del sacrificio silente di ogni giorno.
Questi sono gli strumenti e le conseguenze - la coercizione e il degrado - sono la manifestazione finale di qualcosa di molto più grande che non ha colore, classe, identità, tempo e spazio. È l’idea tossica che noi donne siamo esseri inferiori. La supremazia degli uomini è un “diritto naturale” che non si può discutere, è nei fatti che diventano misfatti.
Se il mondo camminasse sulle ali dell’intelligenza, dell’amore, probabilmente non sarebbero i maschi a dominare. Ma sarebbe una magra consolazione, perché ciò che fa funzionare il mondo è la diversità, la varietà, il complementare e l’opposto che dialogano e si rispettano.
Quello che non torna in questa ricorrenza internazionale è proprio il tono d'occasione.
Improvvisamente, per un giorno, siamo tutti consapevoli di quel che accade a tante di noi. Poi si volta pagina e tutto è come prima: le umilianti quote rosa, la sgrammaticata retorica del ‘gender gap’, la filantropia dei sessi, il buonismo con i confetti... basta, è un’enorme presa in giro.
Da quando ho lasciato il Texas e sono tornata a Roma, la grande questione che mi viene posta, il dilemma che dovrebbe occupare i miei pensieri, è se voglio essere definita “vice direttore”, “vice direttrice” o “vice direttora”.
Con tutto il rispetto, mi viene in mente la frase di un uomo, Rhett Butler nel finale di “Via col vento”: francamente, me ne infischio.
Sarebbe questa la parità? Non è quello di cui abbiamo bisogno noi donne. Mi chiedo cosa resterà domani di questo giorno "pari".