AGI - No, non fu Dino Grandi a far cadere Mussolini. Cioè: l’ordine del giorno che quasi ottant’anni fa mise il Duce in minoranza nel Gran Consiglio fu opera sua, e di Federzoni il fedelissimo disilluso e di Ciano il genero stanco di suo suocero. Ma la trama di quella notte a Palazzo Venezia non è quella, finora avallata dai più, di un Crepuscolo degli Dei in cui i protagonisti hanno le pistole nascoste nelle cartelle di cuoio e si passano bombe a mano sotto lo spesso tavolino di noce.
Quello fu solo l’ultimo miglio, tutto gagliardia o vigliaccheria a seconda dei punti di vista, di una Grande Corsa ad abbattere quell’orso morente e rintronato che erano ormai il fascismo italiano ed il suo Capo.
Lo si legge chiaramente in “Come muore un regime”, libro appena uscito per Il Mulino e firmato da Paolo Cacace, storico del Novecento e giornalista (e quando le due cose vanno d’accordo il risultato è sempre eccellente). Né gagliardia né vigliaccheria, quella notte di mezza estate: solo la necessità di salvare il salvabile per far uscire il Paese da una guerra rovinosa e proporsi magari come imprescindibili interlocutori ai vincitori, che da sud premevano per arrivare a Roma il prima possibile.
Ci avevano pensato tutti, ed era quasi un pensiero fisso della Corona almeno da cinque anni. La prima idea di un golpe l’ebbe nel ‘38 Maria José, che si proponeva ella stessa come reggente perché evidentemente non stimava né il suocero né il marito; di Ciano si parlava già nel 1940 come di un potenziale parricida e sempre Grandi, sempre De Dono e questa volta lo stesso Badoglio avrebbero accarezzato simili sogni di gloria tra la prima e la seconda di queste due cospirazioni.
Ma è l’andamento della guerra in Africa a fare da detonatore. Il 23 gennaio del ’43 gli inglesi entrano a Tripoli, il 1 febbraio Mussolini cede una prima pedina al Re che scalpita: via il generale Cavallero dal vertice dello Stato Maggiore per far posto a Vittorio Ambrosio, che risponde direttamente o quasi al Quirinale. Altri cinque giorni e nove ministri su 12 sono mandati a casa: il Duce cerca di parare le mosse della Corona mettendosi a fianco, più che gli avanguardisti di una volta, burocrati e yesmen.
L’uomo che vedeva passare il regime
Insomma siamo alle ventitreesima ora, la fine è nell’aria e Dino Grandi se ne accorge, ma non è lui a guidare le danze. Lo testimonia un lungo documento che Cacace pubblica per la prima volta in integrale. Un memoriale scritto e firmato da uno di quei grand commis di stato che passano i regimi ma loro restano, e restando osservano e osservando capiscono perché il potere lo conoscono meglio loro dei politici.
Si tratta di Leonardo Vitetti, uno dei più importanti funzionari del ministero degli esteri, che guarda e giudica, sente e scrive. E alla fine conclude: “Il Re non aveva bisogno del voto del Gran Consiglio, era quest’ultimo che aveva bisogno di esprimere un voto che permettesse di separare la causa di Mussolini da quella del fascismo e non coinvolgere il regime, e quindi le loro singole persone, nella condanna del Duce”.
Insomma gli affossatori, come Grandi chiamava il Re e quanti gli impedirono di prendere in mano le redini del Paese la mattina del 26 luglio, quando Mussolini finì nell’ambulanza approntatagli da sua Maestà, sarebbero in realtà i veri cospiratori e lui - Grandi – l’intruso alla cerimonia di chiusura dei giochi. Se così, ad ogni modo, non fu l’unico.
Vittorio Emanuele infatti ebbe anche lui il suo rospo da tirar giù. Il rospo si chiamava Pietro Badoglio: troppa puzza di fascismo per il Quirinale, che semmai avrebbe preferito un suo uomo di fiducia, Enrico Caviglia. Invece alla fine fu Badoglio. Perché? Perché sarebbe subentrata a questo punto una variabile indipendente chiamata massoneria internazionale, l’unica in grado di suggerire a un Monarca legato egli stesso al Grande Oriente una parolina definitiva. A riguardo le fonti storiche sono forti.
Eccoci allora a notare che tutti iniziò di lì, e tutto era già scritto: misteri e massonerie, potere e intrighi. Verrebbe da dire: sempre la solita Italia. Ma, bisogna ammettere, nel prosieguo della vicenda intervennero poi i partiti politici, altra variabile ben poco controllabile, e le carte finirono sparigliate per almeno qualche altro decennio.
Del resto la confusione in quelle ore regnava sovrana e nessuno in fondo sapeva bene cosa stesse accadendo. Basti rammentare una sola cosa: il 26 luglio Hitler a Berlino riceve Goebbels e prende in considerazione l’idea di fare irruzione in Vaticano per rapire Pio XII. È convinto, il Fuehrer, che dietro tutto questo (Grandi, l’arresto di Mussolini, il Gran consiglio) ci sia la longa manus del Vaticano. Sì, è proprio così: niente di nuovo sotto il Sole.