AGI - Aveva un nome che più ottocentesco non si può, visse tutto il Novecento, ci ha lasciati in pieno Ventunesimo Secolo. Ma il suo secolo, che si compirebbe tra pochi giorni, in fondo è stato breve, se non brevissimo. Perché Carlo Azeglio Ciampi, nato a Livorno il 9 dicembre 1920, effettivamente è stato Carlo Azeglio Ciampi per un pugno di anni, mica tanto più a lungo. Nel senso che, con rispetto parlando, finché sei governatore della Banca d’Italia sei autorevole e rispettato, ma non sei al centro del palcoscenico. Suggerisci – il che non è assolutamente poco, anzi – ma non determini. O meglio: puoi determinare, ma non è mica scontato. La storia nazionale è piena di consigli inascoltati: si leggano, a proposito, le carte di Guido Carli raccolte e curate da Piero Craveri. Per segnare del tuo nome la vita pubblica ci vuole un salto di qualità.
Ciampi, rispetto a Carli, ebbe infatti un’opportunità in più: se il secondo fu a un certo punto della sua vita ministro di un governo, il primo fu presidente del Consiglio, e poi anche Presidente della Repubblica. E, soprattutto, non ebbe mai un Andreotti a dargli ombra. La fortuna degli uomini dipende dalla Fortuna per almeno la metà, come diceva un altro toscano. Ciampi di fortune ne ebbe forse per due terzi del totale, addirittura.
Ne ricordiamo una, la prima, l’originale. Da essa dipese tutto il resto. Appena sposato faceva il professore di lettere in un liceo. La moglie Franca (esattamente la stessa età, due settimane più giovane: un saluto anche a lei) gli suggerì il concorso in Banca d’Italia. Dite voi quante chance di assunzione potesse avere un laureato in filologia classica con tesi su un minore ellenista del Terzo Secolo dopo Cristo. E invece lui fu preso. Ad ogni modo non demeritò quel che la Moira gli aveva benignamente riservato: divenne capo dell’ufficio studi, successivamente governatore. Non gli mancavano certo i numeri per mettersi in mostra.
Aveva tentato da giovanissimo la politica con il Partito d’Azione. Nel ’48 l’azionismo era finito e lui era andato, come abbiamo ricordato, a fare il professore. Una Banca d’Italia più tardi eccotelo titolare di un esecutivo tutto suo, su invito di Oscar Luigi Scalfaro, quando i partiti che avevano messo all’angolo i suoi amici azionisti stavano per tirare le cuoia a loro volta. Inizia così, nel 1992, il secolo breve di Carlo Azeglio Ciampi: con una rivincita.
L’arco di tempo si estende, tra una cosa e l’altra, di una quindicina d’anni, fino al 2006: nemmeno tre lustri, a voler essere fiscali con questo genere di conti pubblici. Ma furono un secolo, ad averli vissuti, con tutto quel po’ po’ di uscite della lira dallo Sme, bombe ai Georgofili, Palazzi Chigi dal telefono isolato, Tangentopoli, guerre del Kossovo e poi speranze da riportare in Somalia ed euro da varare, centrosinistra da consolare e poi ancora Berlusconi Uno, Berlusconi Due, Berlusconi Tre: Uno e Trino, e mica tanto addomesticabile. Difficile fare i paragoni, ma secondo noi Vittorino Colombo aveva avuto stagioni più semplici da gestire. L’unica cosa che fu risparmiata a quell’epoca, verrebbe da dire, fu il covid.
Bisogna sottolineare che Ciampi, da presidente del Consiglio, seppe cavarsela con generale soddisfazione, magari anche perché Scalfaro non era Andreotti nel senso che lasciava fare chi stava a Palazzo Chigi (almeno lo fece con lui, con altri no). Certo, avviò le privatizzazioni e introdusse la concertazione, entrambi cose che adesso una parte degli economisti più a sinistra considerano l’inizio della fine. Al momento permisero però una boccata d’aria vivificante.
Ebbe l’accortezza, una volta rimesso il mandato nelle mani di Scalfaro per l’aver deciso essere ormai esaurito il suo compito di traghettatore, di non farsi ammaliare dalle sirene della politica in prima persona. Gli era bastato il 1948. Chi successivamente, in condizioni analoghe, non ebbe pari sagacia finì a scavare un bel buco nell’acqua. Lui invece – la fortuna aiuta i timidi – alla fine sbarcò al Quirinale, in pompa magna. Nel senso che alla prima botta lo elessero i due terzi degli aventi diritto, vale a dire di quella assemblea rissosa ed irascibile che sono i grandi elettori: senatori, deputati e rappresentanti delle regioni. Il suo fu un caso on unico, ma certo raro.
Il suo nome era stato fatto dal centrosinistra, complice il fatto che Ciampi aveva dato una mano nel frattempo come ministro del Tesoro, ma Fini e Berlusconi avevano capito che dirgli di no sarebbe stato inopportuno come portare un cane in chiesa, e subito erano saltati sul carro giusto. Difficile stabilire se se ne siano davvero pentiti più tardi perché è vero, i rapporti tra il Presidente e il Cavaliere si sarebbero guastati nel giro di qualche anno. È altrettanto vero, comunque, che all’inizio non furono poi così pessimi. Si pensi al Lodo Schifani. Lasciamo pertanto la questione nelle mani di chi potrà vedere un giorno le carte segrete dell’uno e dell’altro.
Dal Quirinale il Nostro tentò l’impossibile: ricucire là dove si era strappato l’ordito, Nel senso che la Seconda Repubblica era nata spargendo in mare le ceneri della Prima, che a sua volta si basava su un duplice assunto: Costituzione e Resistenza. Non è un caso che la Carta, da allora, sia stata modellata rimodificata e ristrutturata in modo invasivo con la lena degli eredi che non sanno bene che farsene della villa di famiglia, tanto a loro non è costato fatica conquistarsela. La Resistenza, al tempo stesso, è stata derubricata al massimo a guerra civile, da guerra di liberazione che era. Ne conseguirono malintesi e reciproci sguardi in cagnesco, con grave nocumento per la nazionale armonia. Ciampi cercò di ovviare alle tensioni con la riscoperta di quello che definiva amor di Patria: ripristinò le parate militari, esaltò l’Inno e il Tricolore, indicò nel Risorgimento la radice comune di tutto. Ma, per l’appunto, era Azeglio che parlava ad un Paese la cui ignoranza della storia nazionale era d’impedimento a capire cosa fosse accaduto prima del 1989, figuriamoci del 1889. Fu una fiammata ed essendo tale durò poco. Anzi: i successivi furono gli anni della hyperpartisanship, dello scontro fazioso fine a se stesso. Altro che Fratelli d’Italia.
Lui però ebbe riconosciuto il suo sforzo. Tanto che alla fine del settennato ci fu chi gli chiese in un orecchio se a lui e a Franca (i due erano una cosa sola, ma Franca era la metà che sapeva farsi sentire) non interessasse una proroga del mandato, una rielezione. Rispose da signore: “Il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato”. Ancora una volta era il Secolo Decimonono che parlava, con il lessico ad esso caro, al Secolo Ventunesimo ed ai suoi apprendisti stregoni, o costituzionalisti in erba che fossero. Lo Spirito della Legge (Fondamentale, in questo caso) non andava toccato, in saecula saeculorum. Lo aveva imparato studiando alla Normale di Pisa.
Nessuno osò aprir bocca, di fronte all’obiezione. E lui poté concludere l’epoca che aveva contribuito se non a plasmare, almeno a risistemare in qualche modo, standosene finalmente in santa pace un po’ a Livorno, cosa che poi gli piaceva tantissimo.
Anche quando era presidente, a Livorno ci tornava tutti i fine settimana. Era, tra le altre cose, un appassionato di calcio. Una volta, in visita in Argentina, citò a memoria la formazione del Livorno Calcio che negli anni Trenta accarezzava un pallone di cuoio marrone con tocchi sapienti, facendo vedere i sorci verdi sui campi di Serie A all'Ambrosiana, alla Triestina e persino alla Lucchese. Ebbe la soddisfazione, da Presidente, di vedere i suoi rossi amaranto capitanati da Cristiano Lucarelli tornare trionfalmente nella massima divisione.
Furono in due a gioirne: lui e le Bal, Brigate autonome livornesi. La Torcida labronica. Si vedevano, Ciampi e le Bal, tutte le domeniche che l'undici allenato da un giovane Mazzarri giocava al Picchi. La prima volta finì con una sconfitta: 1-2 con il Chievo. La seconda fu un pareggio: 2-2 con l'Atalanta. Seguì una nuova sconfitta: 0-2 con la Roma. Alla quarta, una nuova sconfitta: 1-2 con il Palermo. Al novantesimo la curva srotolo' lo striscione: "Carlo, per favore, domenica vai a vedere la Fiorentina". Farabutti. Una delle poche volte che a Ciampi sia toccato, in tutta la vita, di sentirsi fare una critica. Anzi, in un secolo intero.