Le soluzioni politiche divergono nei modi, ma tutte convengono su un punto: all’Italia serve una rete unica nazionale in grado di portare la fibra in ogni angolo del Paese. Serve per colmare il gap dei luoghi più o meno remoti della Penisola; serve perché l’emergenza coronavirus ha ricordato a tutti quanto fondamentale sia la connettività per garantire lo svolgimento delle attività quotidiane, dal lavoro alla scuola; serve perché senza un’Internet adeguata è impensabile sviluppare un’economia che sappia sfruttare la leva del digitale.
Le reazioni della Politica alla proposta di Grillo
Grillo in un post sul blog ha rilanciato il dibattito sulla rete unica, proponendo uno ‘spezzatino’ di Tim e la nascita di una società unica delle infrastrutture integrando la rete fissa con Open Fiber.
La politica si è divisa sulle sue parole. Il sottosegretario allo Sviluppo economico Gian Paolo Manzella all’AGI si è detto favorevole alla rete unica, ricordando però la necessità che il gestore “abbia una forte presenza dello Stato”.
Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri invece sottolinea la necessità di una rete unica nazionale, ma “senza espropri sovietici” e rispettando le dinamiche del mercato. Sulla stessa linea, ma con sfumature diverse, Alessandro Morelli della Lega, che ha ricordato come la Lega sia da sempre pro rete unica, “ma va capito quale società deve farla e come risolvere la partita tra Tim e Open Fiber”.
Ma per capire perché oggi la rete unica è diventata un’urgenza occorre partire da quella che storicamente si è caratterizzata come un’eccezione italiana, un ‘deficit originario’: mentre in altri Paesi c’erano e ci sono le reti della tv via cavo e quelle telefoniche, in Italia le prime mancano. I cavi della tv avrebbero potuto fornire un’alternativa ai cavi della rete telefonica: reti, pozzetti, tracce sotterranee da cui far passare i cavi della banda larga.
Quindi quando Internet ha cominciato a chiedere sempre più capacità di dati rispetto a quella che poteva garantire la sola rete telefonica, sono cominciati i problemi. A questo si aggiunge la peculiarità della distribuzione della popolazione sulla Penisola, l'esistenza di comuni piccoli e piccolissimi, spesso in montagna e sulle isole.
Business ad alta densità e strategie politiche
Negli anni la creazione di infrastrutture in grado di poter portare Internet veloce nelle case degli italiani si è concentrata dove gli operatori avevano ragionevoli possibilità di guadagno: le città di medie e grandi dimensioni, circa il 12% della popolazione. Eppure non è solo qui che gli italiani vivono, né è solo qui che il Paese lavora, produce, crea ricchezza.
“I business come questo della rete sono legati alla densità abitativa. Diventano profittevoli solo in aree dove la popolazione è concentrata e c’è molta domanda. Quindi il problema italiano nasce dalla difficoltà di conciliare i corretti interessi dell’azienda, i suoi obiettivi di bilancio, e l’obiettivo della politica di dotare il Paese di una rete ad alta capacità e a prova di futuro”, spiega ad AGI Stefano Quintarelli, imprenditore e esperto di Tlc.
Quello che è stato fatto negli ultimi anni, dall’operazione Open Fiber al progetto di rete unica, è stato un tentativo di risolvere questo ‘deficit originario’. Open Fiber aveva come finalità fare concorrenza al gigante italiano delle reti telefoniche, Tim, operando solamente all’ingrosso attraverso una società partecipata da Enel e da Cdp.
La domanda che si è posti oggi è se ha ancora senso duplicare gli investimenti infrastrutturali o sarebbe meglio combinare le risorse per raggiungere una diffusione maggiore. Ormai tutte le forze politiche guardano di buon occhio la creazione di un’unica società nazionale che abbia come obiettivo lo sviluppo della fibra su tutto il territorio nazionale. Ma è sul come farlo che le opinioni divergono. Non solo quelle politiche, ma anche quelle delle società interessate.
Il mulino e la farina: l'infrastruttura e la connessione
Per spiegare gli interessi in gioco Quintarelli usa la metafora del mulino e della farina: “Tim svolgeva e svolge sia il ruolo di mulino che quello di panificatore: ha l’infrastruttura per creare la farina (il traffico internet, ndr) e al contempo vende i propri servizi al consumatore finale (le connessioni, ndr). Se vogliamo, decide anche la qualità della farina da vendere agli altri operatori per fare il proprio pane. Open Fiber ha provato a creare un altro ‘mulino’. Il risultato è stato che molti operatori hanno cominciato a chiedere le sue infrastrutture, riducendo la domanda verso Tim”.
Quintarelli ritiene ancora ‘sensata’ l’operazione Open Fiber: “Dire che una società che fa energia non possa creare l’infrastruttura della fibra è sbagliato. Enel aveva ciò che costituisce la parte principale dell’infrastruttura per distribuire i cavi in fibra necessitava: aveva i tubi, i pozzetti, serviva in più un po’ di vetro e un po’ di elettronica. E poi con l’utilizzo dei bandi europei si è aggiudicata gare e fondi per poter portare avanti le operazioni”.
Si è creata una concorrenza che secondo Quintarelli Tim ha sofferto. Da qui, spiega Quintarelli, l’idea del governo, che ha quote in Tim, in Enel con Cdp soprattutto in Open Fiber: “È da qui che nasce l’idea di un operatore unico per le reti. Ma vanno messe d’accordo le società, perché al momento la partita su chi abbia il pallino della governance non è conclusa”.
Gli interessi in gioco: perché la rete unica nazionale è un equilibrio difficile
Sul piatto il ruolo di Tim, che ha il grosso della rete. Ma anche di Enel e Open Fiber, che hanno guadagnato il loro mercato e fatto investimenti. “Il nocciolo è: chi controlla la rete unica. Perché poi è chi controlla che decidere se e come fare investimenti, o se preferire distribuire dividendi. C’è da bilanciare l’interesse a medio-lungo periodo di un Paese, con quelli a breve-medio periodo delle logiche aziendali”.
Un altro aspetto su cui tutti sembrano essere d’accordo è il ruolo dello Stato. Difficile immaginare un’operazione del genere senza una regia forte da parte delle istituzioni. “Non sono un grande fautore dell’intervento dello stato in economia”, ragiona Quintarelli, “ma qui c’è da constatare un fallimento del mercato. Lo stato quindi dovrebbe indicare un obiettivo: vogliamo che ci sia la rete in fibra sul 90% del territorio, o della popolazione, in un tot di anni”.
Le regole di Bruxelles. Il rischio 5G
Qui sorge un altro problema. Perché ricorda l’imprenditore che anche qualora si dovesse riuscire a trovare una quadra tra tutti gli attori in campo, poi c’è da superare l’ostacolo Bruxelles, dove “vigono regole che noi stesso abbiamo contribuito a costruire, e dicono che la riconcentrazione in un operatore unico può avvenire solo in casi assai limitati. Se sarà trovato un accordo, bisognerà convincere l’Europa che tutto è giustificato dalla particolarità della situazione Italiana, dovuta alla sua storia, al suo territorio e a come si distribuisce sulla Penisola la sua capacità di creare valore”.
Senza dimenticare l’ultimo di problemi a complicare il quadro: il 5G. Il nuovo standard prevede che tutto venga definito via software e con capillarità estrema e grande dispendio di risorse per gli operatori: “Ha senso che vi siano investimenti in infrastrutture fisiche duplicate?”, si domanda in chiusura Quintarelli.