AGI - Al Consiglio europeo che dopo quattro giorni di furibondi negoziati ha varato il Recovery fund, l’Italia ha vinto. L’asse tra Francia e Germania ha vinto. Anche Polonia e Ungheria hanno vinto. L’Olanda ha vinto pure lei, come i compari di fruglità Finlandia, Danimarca, Austria, Svezia. L’Ue, manco a dirlo, ha vinto.
E allora, chi ha perso? Ma nessuno, almeno a leggere le dichiarazioni dei leader. Conte libera un’esultanza tricolore: ”Sono stati giorni molto intensi, ma questo risultato ci deve rendere orgogliosi. Orgogliosi di essere italiani". Però Rutte assicura: “Il risultato è un buon pacchetto che salvaguarda gli interessi olandesi”. E Kurz rivendica “un buon risultato per l’Ue e l'Austria”. Da parte sua, Orbàn gongola: “L’Ungheria e la Polonia non si sono semplicemente assicurate fondi sostanziosi al summit Ue, abbiamo anche protetto il nostro orgoglio nazionale”. Sarà certamente così, anche se, invece, per Sanna Marin "il risultato finale contiene molte cose importanti per la Finlandia e può essere considerato buono dal punto di vista della Finlandia".
L'ovattato linguaggio democristiano
Nei timpani riverbera l’eco del mellifluo linguaggio partitico dell’Italia democristiana, di un’epoca tramontata ma sopravvissuta nei felpati equilibrismi di ogni compromesso in cui ciascuno può dirsi vincitore. All’indomani delle elezioni italiche, fossero le politiche, le europee, le regionali, le comunali, le ormai neglette provinciali, i capi dei partiti sorridevano e qualsiasi fossero i numeri vi sapevano leggere invariabilmente una loro vittoria.
Lo ricorda uno dei protagonisti di quella stagione, Paolo Cirino Pomicino: “Anche chi perdeva qualche punto diceva di aver contenuto le perdite. Era l’ovattato linguaggio democristiano che tutti parlavano”. E che ancora si parla, a Bruxelles.
Qualche esempio d’annata, estratto dalle collezioni dei giornali. Andreotti dopo le politiche del 1979, in cui la Dc aveva perso lo 0,41%: “È stata premiata la nostra politica di crescita economica e di stabilità”. De Mita, gambetto nella partita a scacchi con Craxi per la presidenza del Consiglio dopo le politiche del 1987: “Con questo risultato spero che tutte le aspettative si plachino. Sia per chi immaginava di dilagare, sia per chi temeva di regredire”. Risposta di Craxi: “Quel che conta è il dato politico. Non sta a me giudicare se la sua sia una grande vittoria, ognuno adotta un proprio parametro”. Antonio Del Pennino, vicesegretario del Pri, commentando la perdita dell’1,38% sempre alle politiche del 1987: “La flessione è indubbia ma solo facendo un raffronto con le ultime politiche avvenute in condizioni del tutto favorevoli. Invece i risultati odierni non si discostano molto dalle regionali dell’85”.
Ognuno poteva bearsi del risultato
Sintesi di Pomicino: “La struttura del sistema politico italiano era tale che le oscillazioni erano al massimo di uno, due, tre punti. E tutti vincevano, perché il pentapartito era sempre oltre il 53-54%. Quindi ognuno poteva bearsi del risultato della coalizione”. L’ex ministro andreottiano rievoca però una sconfitta troppo vistosa per essere disconosciuta : “Solo De Mita ebbe la capacità di perdere 6 punti nel 1983. Voleva dimettersi, ma tutti fecero la sfilata a Nusco e restò segretario”. E qui Pomicino chiosa, forse con un riflesso pavloviano che fa scattare l’antica ovatta democristiana: “Però la Dc ha retto nonostante De Mita”. In fondo, in Europa è andata come andava nel pentapartito. Tutti vincono, tutti portano a casa qualcosa.