Il Dpcm è entrato ormai nei nostri salotti e nei nostri tinelli, ne parliamo a cena con nonni e figli, ne attendiamo gli aggiornamenti. Ma quello che ormai è diventato per molti una sorta di bollettino di permessi e divieti, ha motivi e limiti ben precisi, anche in tempo di coronavirus. Si tratta di un decreto emanato dal presidente del Consiglio e non deve essere vagliato dal Presidente della Repubblica nè approvato dalle Camere. Non ha la forza di una legge ma è più simile a un regolamento. Eppure in queste settimane di emergenza sta regolando le nostre azioni quotidiane, dal lavoro allo shopping, dalla visita ai parenti allo sport. Nello stesso tempo invece il Parlamento si riunisce solo in via eccezionale, con poche sedute e parlamentari dimezzati.
Insomma, il coronavirus sta apparentemente legittimando uno strapotere del governo sul Parlamento: esiste un protocollo istituzionale d’emergenza? Da giorni assistiamo a un susseguirsi di vertici governo-regioni-Protezione civile, decisioni prese direttamente dal presidente del Consiglio con suoi decreti, votazioni parlamentari per allentare il pareggio di bilancio, il Parlamento stesso a ranghi volontariamente ridotti, mentre si apre il tema del voto a distanza. Quello per fronteggiare il coronavirus è un vero e proprio protocollo messo a punto nelle scorse settimane, procedendo anche un po’ con tentativi, e viene monitorato a distanza anche dal Quirinale. Tutti sperano che non si dovrà mai riutilizzare, ma già i costituzionalisti si interrogano sulla opportunità ed efficacia di questa modalità decisionale. Ovviamente, in tempi di coronavirus, anche il dibattito tra costituzionalisti si svolge in chat, mentre le proposte dei parlamentari arrivano online. Il grande tema è se si possano limitare le libertà di movimento, di istruzione e di impresa attraverso decreti, a volte addirittura attraverso dpcm.
Ma per ora i passaggi sono stati sostanzialmente corretti, concordano i costituzionalisti. Fulco Lanchester, professore di diritto costituzionale alla Sapienza, ricorda: “a gennaio l’Oms ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria mondiale, il 31 gennaio il governo ha dichiarato a sua volta lo stato d’emergenza sanitaria per sei mesi ed ha emanato un decreto legge, il 23 febbraio, che prevedeva misure urgenti e che le Camere stanno esaminando”. Per molti questi primi passi, insieme allo stato d’emergenza dichiarato dal Cdm, costituiscono un quadro adeguato a giustificare i provvedimenti successivi, anche se emanati con un dpcm.
Per Lanchester “stiamo seguendo le regole dello Stato di diritto”, a maggior ragione considerando quali sono i valori e i diritti costituzionali in gioco, a cominciare dal bene pubblico passando per la salute: “È evidente che alcune potrebbero sembrare delle forzature, ma il fatto che ci siano organi di controllo, dal Presidente della Repubblica alla Corte costituzionale, fino alla stampa (e ieri il dpcm ha stabilito che le edicole possono restare aperte) garantisce che ci sarà il necessario controllo sulle decisioni del governo. Se dovessero esserci delle sbavature, ci sono questi organismi di controllo che possono intervenire”.
E non è un caso, assicura il costituzionalista, che proprio a ridosso dell’emanazione dei primi dpcm Sergio Mattarella sia intervenuto pubblicamente, con un messaggio alla nazione, “che ha dato la sua adesione implicita ed esplicita a cioò che sta accadendo, una copertura istituzionale dell’organo di garanzia interno che è il Capo dello Stato”. Del resto in ballo ci sono valori costituzionali fondamentali come il diritto alla salute, alla vita e al bene comune, che vanno però messi bene in gerarchia. Per Lanchester anche il lavoro da remoto del Parlamento non è un tabù, anche se esiste un problema di sicurezza “da me già sollevato nel 1989”.
Anche Francesco Clementi riconosce che sta prendendo forma un “diritto costituzionale d’emergenza”, con lati positivi ma anche con alcuni aspetti problematici. Ben venga ad esempio il voto parlamentare a distanza, ma il docente di diritto pubblica comparato all’università di Perugia mette in guardia dai problemi di sicurezza e privacy e quindi di quale piattaforma poter utilizzare.
L’uso reiterato dei dpcm, poi, sta suscitando alcuni dubbi, “perché molti anche nei ministeri si chiedono perché non usare lo strumento del decreto legge, magari reiterandolo, invece di una fonte di rango secondario che non passa nemmeno dal vaglio del Quirinale”. Infine il dpcm sta mostrando un limite ben preciso: spesso il testo è vago e va poi spiegato con molti interventi successivi e questo disorienta i cittadini.
L'ipotesi di reiterare i decreti del governo, senza passare per il voto del Parlamento, non si può escludere a priori. Anzi. In una situazione di emergenza nazionale, con il rischio che le Camere siano impossibilitate a svolgere appieno la loro funzione per un tempo limitato, può rientrare nei casi in cui è possibile procedere con la reiterazione di un decreto. Del resto, ricorda il costituzionalista Stefano Ceccanti, la sentenza della Corte costituzionale n.360 del '96 non dice che, in assoluto, non si possono reiterare i decreti. Ma afferma "l'illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 77 della Costituzione, dei decreti-legge iterati o reiterati, quando tali decreti, considerati nel loro complesso o in singole disposizioni, abbiano sostanzialmente riprodotto, in assenza di nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità ed urgenza, il contenuto normativo di un decreto-legge che abbia perso efficacia a seguito della mancata conversione". Dunque, essendosi in questo caso nuovi e sopravvenuti presupposti straordinari di necessità ed urgenza, si potrebbe procedere con la reiterazione.
Quanto all'attività del Parlamento, per Ceccanti nulla impedisce di prevedere la possibilità del voto a distanza. "La preoccupazione, mia ma non solo mia, è quella di adottare strumenti (non solo il voto ma anche interventi a distanza) che consentano effettivamente di lavorare, non di eludere il lavoro. C'è bisogno che il Parlamento lavori, ma non possiamo identificare il Parlamento con un ambiente che per le sue dimensioni (numeri, provenienze geografiche) è costitutivamente a rischio. Per di più, oltre a un problema di quorum, c'è il serissimo rischio di votazioni numeriche falsate: che succede se a un certo punto è piazzato in quarantena un intero gruppo o una parte consistente di un gruppo? Ragioniamo laicamente su ogni singola possibile innovazione, ma l'unica cosa che non si può fare è difendere lo status quo che in pochi giorni potrebbe saltare sotto vari profili".
Per Salvatore Curreri, professore di istituzioni di diritto pubblico all'Università Kore di Enna, per quel che riguarda il ricorso ai dpcm per assumere decisioni relative a forti restrizioni della libertà personale, "in generale non vi è dubbio che la soluzione intrapresa dal governo, che ha varato prima un decreto legge in cui si prevedevano limitazioni alle libertà costituzionali, rinviandone l'applicazione nei Dpcm, sia una soluzione che potrebbe anche ritenersi ammissibile, proprio perché alla base c'è un decreto, ma di contenuto generico. Quanto all'adottare misure restrittive delle libertà con un dpcm, ovvero un atto sostanzialmente amministrativo, che quindi sfugge al controllo preventivo del presidente della Repubblica e a quello successivo del Parlamento, desta un pò di perplessità. Di solito si procede, per l'urgenza, con i decreti" e non con i dpcm.
Detto questo, per Curreri il tema del funzionamento del Parlamento, è un tema che va posto. "Siamo in condizioni di emergenza e non si possono applicare le normali regole, con il rischio della paralisi. Ricorrere alla riduzione proporzionale delle presenze dei vari gruppi, di carattere anglosassone", reca con sè alcuni interrogativi: e se un determinato gruppo parlamentare risultasse maggiormente colpito dal virus e quindi fosse impossibilitato a garantire la seppur minima presenza in Aula? Ebbene, in questo caso si "avrebbe una alterazione dei rapporti di rappresentatività e di forza. E' ad esempio il caso della componente di +Europa del gruppo Misto, formata da soli tre deputati tutti impossibilitati a partecipare alla seduta in quanto venuti a contatto con il primo deputato risultato positivo". Insomma, la "riduzione in scala dei gruppi presenti deve comunque garantire la rappresentanza".
La soluzione migliore, secondo il professor Curreri, sarebbe il voto a distanza, tra l'altro già adottato in alcuni parlamenti, come quello catalano. Del resto, "domani noi ci riuniamo per una sessione di laurea in videoconferenza, e daremo una laurea pienamente legale. perché non può farlo il Parlamento nel 2020? Non si può ragionare basandosi sulle regole a prescindere dalla situazione, si rischia l'inoperatività del parlamento". Per Curreri l'articolo 64 comma 3 della Costituzione, che dispone che il parlamento delibera a maggioranza dei presenti, "non impedisce il voto a distanza, perché non fa un esplicito riferimento alla presenza fisica, quindi non vi è alcun divieto della Carta".
Come procedere dunque? "Si può fare una modifica del regolamento della Camera, ma sarebbe una procedura lunga. Si potrebbe quindi procedere con l'accordo di tutte le forze politiche. Il presidente della Camera convoca la Giunta e chiede il consenso dei gruppi per introdurre questa modifica attraverso un parere interpretativo che consente in via eccezionale il ricorso al voto telematico". La conditio sine qua non è che ci sia "l'accordo di tutti i gruppi , l'unanimità di tutte le forze politiche". In questo modo "non si verrebbe a ledere il diritto di nessuno".