Quando ha accettato l'incarico, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sapeva bene che il governo che stava per nascere aveva la sua specificità, per usare un eufemismo. Veniva, d'altra parte, da mesi travagliati in cui si era trovato a fare da pompiere negli scontri infuocati fra gli azionisti gialloverdi. Non poteva certo immaginare, tuttavia, in quale ginepraio stava per infilarsi. E, a tre mesi dal varo del nuovo esecutivo, le spine per il premier, sono quantomai numerose.
Renzi e Italia viva
Nonostante affermi a ogni occasione di voler sostenere con lealtà il governo di cui fa parte, Matteo Renzi rappresenta una incognita per Giuseppe Conte che, più volte, ha mostrato di mal sopportare il modus operandi del senatore di Rignano. Il giorno stesso del giuramento, Renzi ha annunciato la sua uscita dal Pd e il varo di una nuova formazione politica. Una scelta che, per il metodo prima ancora che per il merito, è apparsa come una dichiarazione di guerra all'esecutivo. Nei giorni successivi, Italia Viva è sembrata voler replicare la strategia della Lega nei mesi del Conte I, giocando contemporaneamente il ruolo di forza di governo e di opposizione.
La manovra economica
Una strategia che si è disvelata appieno con la legge di Bilancio, la seconda spina con la quale si trova ad avere a che fare il premier: alle dichiarazioni degli esponenti renziani in consiglio dei ministri, che parlavano di piena sintonia su tutte le norme approvate, facevano da contraltare i Tweet del leader del partito che annunciava battaglia ora su Quota 100, ora su plastic tax e rimodulazione dei benefici per le auto aziendali.
Il Movimento 5 Stelle
Altre spine arrivano dal partito che ha espresso lo stesso premier. I Cinque Stelle vivono una fase interna travagliata, in cui si pagano i mesi di governo che hanno portato i "portavoce" pentastellati a rivedere molte delle posizioni del Movimento delle origini, a cominciare dalla Tav e dalla Tap. A pagarne le conseguenze è Luigi Di Maio, il capo politico che si trova a dover tenere a bada i malumori interni - da una parte - e quelli della base dall'altra. Difficoltà che si riverberano sul rapporto con il governo. Lo si vede chiaramente con la vicenda Ilva-ArcelorMittal.
Il passo indietro di Arcelomittal
La scelta del gruppo franco-indiano di andarsene da Taranto potrebbe avere degli effetti deflagranti sul governo. Di Maio si trova a dover mediare tra i parlamentari Cinque Stelle favorevoli al ripristino dello scudo penale, nella speranza di convincere i vertici dell'azienda a desistere dai loro propositi e non scoraggiare altri eventuali gruppi dall'investire a Taranto, e un gruppo non residuale di parlamentari, capitanati dall'ex ministro Barbara Lezzi, fieramente contrari alla norma. Ma anche nel Pd c'è chi si dice dubbioso sull'opportunità di reinserire questa sorta di immunità.
Zingaretti e il Pd
L'uscita dal Pd di Matteo Renzi e dei parlamentari a lui fedeli non ha, infatti, portato del tutto la pace nel partito. I gruppi alle Camere sono quelli formati con le liste redatte da Matteo Renzi e rappresentano una maggioranza diversa, anche se non piu' alternativa, a quella uscita dal congresso dem. Con lo sfumare dell'ipotesi del voto a ottobre e la formazione del Conte II, poi, Zingaretti ha visto venir meno anche l'occasione del voto per avere dei gruppi parlamentari composti da personalità di sua totale fiducia.
Non potendo fare altrimenti, il segretario ha scelto quindi la via dell'unità, aprendo il partito alle minoranze e annunciando, come ha fatto nell'ultima direzione una segreteria unitaria. E, tuttavia, il partito mostra ancora delle crepe: lo si è visto in occasione del voto sulle motovedette italiane alle forze libiche, quando Orfini e un piccolo drappello di deputati ha sostenuto una mozione diversa da quella del suo stesso partito. E lo si vede in queste ore su Ilva. Francesco Boccia, ministro della Coesione Territoriale, ha dato voce a quanti tra i dem non vogliono saperne di un nuovo scudo da inserire tramite decreto.
Lo spettro del voto
Anche per questo, lo sguardo degli alleati è sempre più rivolto a Nicola Zingaretti. Perché il segretario avrebbe tutto l'interesse ad accelerare sulla strada del voto. Lo ha ripetuto anche ieri: il Pd sarebbe l'unica forza politica di maggioranza a trarre vantaggio dalle urne in questo momento. La condizione posta da Zingaretti è che gli alleati la smettano con i distinguo e le prese di posizioni antitetiche a quelle concordate in Consiglio dei ministri. Un richiamo a cui Luigi Di Maio e Matteo Renzi non hanno fin qui risposto. Ma Zingaretti farebbe davvero saltare il governo? Per i renziani no, "le urne anticipate sono un'arma spuntata", dicono lontani dai microfoni.
Alitalia
Quella della compagnia di bandiera rischia di essere per Conte un nuovo caso Ilva: il 21 novembre è il termine ultimo fissato per le manifestazioni di interesse all'acquisto da parte della nuova cordata, mentre per la fine di marzo 2020 si dovrebbe chiudere l'intera vicenda con il perfezionamento della vendita. Tuttavia si attendono ancora segnali concreti da Lufthansa: il cda della compagnia tedesca si riunirà oggi per far il punto sui propri conti ma dall'appuntamento si attendono anche chiarimenti sul possibile ingresso nel capitale di Alitalia.
Le altre spine
Ma fuori dalla consueta attività di governo, a rendere difficile il cammino del premier Giuseppe Conte ci sono anche le vicende legate al caso Barr, con la questione degli incontri in Italia fra l'attorney general Usa e i Servizi nell'ambito delle indagini di Washington sulla genesi del Russiagate, e il presunto conflitto di interessi connesso ad un incarico professionale assunto precedentemente all'incarico di governo: il cosiddetto 'caso Fiber', sollevato la scorsa settimana dal Financial Times e cavalcato dal centrodestra, con la richiesta di chiarimenti. Chiarimenti che Conte ha già fornito, ma che lasciano - se non delle spine - almeno delle cicatrici su un governo che a poco più di due mesi dalla sua nascita appare già molto provato.