“Gli otto articoli di quel Memorandum non sono le Tavole della Legge. Non è immodificabile. Resto però dell’avviso che non lo si possa cambiare in maniera unilaterale. Dobbiamo tentare delle modifiche concordate”. In un intervista a la Repubblica, l’ex ministro dell’Interno del governo Gentiloni replica così al quotidiano che gli chiede se non prova imbarazzo per il fatto che oggi il Pd è costretto a confrontarsi con quel Memorandum da lui sottoscritto il 3 febbraio 2017, dinanzi alle plateali violazioni dei diritti umani dei migranti e alla brutalità con cui agisce la Guardia costiera libica finanziata proprio grazie a quell’accordo.
Minniti, che si autodefinisce “uomo delle istituzioni democratiche al servizio degli interessi del Paese”, aggiunge anche che “se ritenessi di avere compiuto scelte sbagliate, o addirittura immorali, per incassare un consenso momentaneo, ne trarrei le conseguenze”.
Dunque, secondo l’esponente Pd, il patto del Memorandum sottoscritto due anni fa con i libici “non è immodificabile” ma bisogna anche “cercare di riprendere per i capelli, con un estremo tentativo, il processo di stabilizzazione della Libia abbandonato dal governo precedente”. E “se le modifiche non vanno avanti, tireremo un bilancio. Alla Libia dobbiamo dire che non la lasciamo sola, ma che saremo molto più esigenti”.
Minniti poi aggiunge che lui in Libia ha trattato “esclusivamente con le autorità del governo” e che si è inoltre adoperato “per sostituire alla moneta cattiva del traffico di migranti la moneta buona della cooperazione nonché del ritorno in Libia dell’Onu”. “Per questo - sottolinea - ho voluto incontrare anche i capitribù del deserto meridionale e i quattordici sindaci delle città più coinvolte nel traffico. Non siamo ipocriti. Ciò comporta di mettere le mani in situazioni delicate, ambigue. In Libia c’è la guerra civile. Ci si imbatte in personaggi dal passato non limpidissimo. Le diverse fazioni arruolano chiunque le aiuti a combattere l’avversario, col pericolo di finire ostaggi delle posizioni più estreme”.
Alla domanda se ha incontrato anche Rahman al-Milad, detto Bija, riconfermato comandante della Guardia costiera di Zawyah, nonostante sia conosciuto come criminale e già trafficante, l’ex titolare del Viminale risponde secco: “Non ho mai incontrato Bija” e di aver letto solo sui giornali che “è venuto in Italia per un viaggio di formazione organizzato dall’Oim. Ma non so più di questo. Non ho mai autorizzato accordi che sacrificassero l’etica e i diritti umani”, chiosa. E nega anche che il governo italiano da lui rappresentato in quell’epoca sia andato in Libia per fermare a tutti i costi gli sbarchi sulle coste italiane, firmando di fatto un patto con il diavolo: “Non abbiamo lasciato una delega in bianco ai libici. Non gli abbiamo chiesto: “Aiutateci a fermarli”. Gli abbiamo detto: “Aiutateci a cambiare la Libia”.
Poi il ministro racconta di una situazione drammatica quando è arrivato al Viminale alla fine del 2016, anno in cui si contarono 180 mila sbarchi in Italia. “Il nostro sistema di accoglienza era sull’orlo del collasso”, dice, e ricorda “una riunione drammatica con i prefetti che temevano la situazione ci sfuggisse di mano. Diventava un problema di ordine pubblico, rischiavi di dover forzare le barricate”.
E conclude affermando che “non possiamo abbandonare la Libia a sé stessa” perché far questo equivarrebbe “a lavarcene le mani ignorando il destino dei migranti”. La tutela dei diritti umani e la programmazione di un’immigrazione regolare, dice Minniti, “impongono la ripresa di un’iniziativa concertata europea, se è vero che il nostro vero confine si trova ormai sull’altra sponda del Mediterraneo”.