Governo nuovamente in alto mare? Sul fronte dei giornali ce n’è più d’uno pronto a giurare che il banco stia per saltare. E non tanto o non solo per il fatto che ieri Matteo Salvini ha detto al Corriere della Sera: “Giù le tasse per 10 miliardi o saluto e me ne vado”; quanto piuttosto, come titola Il Giornale, perché ci sono “Grandi manovre a Palazzo” e tanti “indizi che portano al voto”. Anche se nessuno ne parla apertamente e chiaramente, ma il linguaggio della politica fa capire che “i partiti si preparano al voto”. Un indizio, per dirne una, secondo il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti, si troverebbe “a partire dalle mance elettorali infilate nel dl Crescita”.
Il Corriere della Sera va più a fondo e, attraverso un retroscena di Francesco Verderami, porta a galla una voce dal sen fuggita: “Tra una settimana si capirà tutto”, diceva ieri il sottosegretario Giancarlo Giorgetti ai leghisti che gli chiedevano se Salvini aprirà la crisi. Anche perché per farlo ci vuole una buona ragione, meglio “una giusta causa” per poter sciogliere un “contratto” come quello stretto da Lega e 5 Stelle.
Nessuno scioglie un governo a cuor leggero, insomma. Quindi? “Potremmo farlo solo su temi che siano facilmente comprensibili dai cittadini” si sarebbe espresso Salvini con i suoi ministri, “che nell’ultima riunione hanno premuto per rompere con M5s e andare alle urne” (nero su bianco sul quotidiano diretto da Luciano Fontana).
E il pretesto, allora, sarebbe che “se Bruxelles sanzionasse Roma, il segretario della Lega reagirebbe all’’attacco politico’, accuserebbe l’Europa di ostacolare il varo della ‘rivoluzione fiscale’ che dice di voler scrivere ‘insieme al mondo produttivo’. E a quel punto potrebbe considerare suo malgrado inutile proseguire l’esperienza gialloverde a Palazzo Chigi, chiamando alle urne gli italiani”. Punto.
Il quotidiano di via Solferino scrive ancora che “sembrerebbe l’organizzazione di un delitto perfetto, se non fosse che la flat tax — più di un progetto di governo — era parsa subito un manifesto elettorale. Perciò, per non dare pretesti, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio fanno mostra di assecondare Salvini. Per quanto i loro margini di azione siano ridotti, a causa della situazione dei conti pubblici e delle pressioni dei partner europei”.
Certo, Di Maio ha anche detto ieri: “Sto lavorando a un governo che duri quattro anni”, ma “non a caso – rileva il giornalista – ha omesso di dire ‘questo governo’”. Ma qui restiamo al vocabolario e al linguaggio della politica. Il punto più grave, semmai, “l’altro percolo” che il Carroccio vorrebbe evitare” è “che sia questo Parlamento ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica”.
Quindi il Quirinale sarebbe il vero obiettivo nelle mire salviniane. Perché “per un partito che oggi è potenzialmente il più forte nel Paese, immaginare di affrontare la corsa al Colle con i rapporti di forza, fissati dal voto dello scorso anno, significherebbe restare ai margini del grande gioco, ‘sarebbe come se stracciassimo la schedina del 13 al Totocalcio’”. Arzigogolii? Libero parla di “tregua finita” così “Gigino e Matteo tornano a litigare su tasse e Ilva”.
Per Il Fatto l’ultima sfida gialloverde si gioca sulla “caccia al nemico ‘utile’”, ma questa guerra di logoramento tra i due schieramenti “fa comodo a entrambi”. Da una parte ci sono i leghisti che temono di perdere l’onda favorevole del voto europeo, che vorrebbero poter continuare a sfruttare; dall’altra ci sono i 5 Stelle che sono ancora sotto schiaffo e pancia a terra per il dimezzamento dei consensi. Convinti, però, che “smontare” l'entusiasmo del vicepremier leghista “sia il modo migliore per far capire di che pasta è fatto. E per provare a tirarsi su prima che qualcuno dichiari il knock-out”.
“Ma le tensioni nella maggioranza si riaccendono”, annota Il Sole 24 Ore. “Salvini è accusato di violare l’accordo di tenere bassi i toni. Reagiscono persino i Cinque Stelle, che pure vedono come fumo negli occhi le urne anticipate e hanno cerchiato in rosso il 20 luglio, ultima data per sciogliere le Camere e votare a settembre”. E il giornale confindustriale intanto fa anche un po’ di conti e soppesa il mercato elettorale, scrivendo che “un partito del premier può valere il 12%” mentre Giovanni Toti da solo vale il 2,5, Renzi il 6 mentre Toti-Salvini-Meloni insieme fanno il 45.