Propalare, diffondere, far sapere, mettere in giro. Annunciare. Comunicare: eccolo, il significato di questo termine, propaganda, che sa di perifrastica passiva latina con l’accezione di “cose da far circolare”. Perché, come cantava anni fa Justin Timberlake, “What goes around comes around”: se metti in circuito qualcosa, prima o poi qualcosa ti torna indietro. Il profitto è assicurato.
E se si pensa che alla base di tutto v’è un annuncio, allora non ci si stupisce che a coniare il termine nella sua connotazione moderna e contemporanea sia stata quella formidabile macchina da guerra che è sempre stata la Chiesa Cattolica, la cui missione ha da sempre avuto a che fare con un lieto annuncio (l’Evangelium) da comunicare urbi et orbi. E che quando passava i suoi numerosi periodi di difficoltà, sapeva come reagire.
Una diavoleria chiamata stampa a caratteri mobili
Fu così nell’epoca post-tridentina, quando si trattava di respingere l’attacco dei luterani eretici e scismatici. Questi avevano dalla loro le armi degli eserciti di un Gustavo Adolfo come della Lega di Smalcalda quanto la facondia di Martin Lutero e la scienza di Filippo Melantone, e facevano proseliti fin dentro la Penisola italiana.
Il Papa di Roma rispose con uguale sagacia.
Intano le guerre le fece combattere agli Asburgo. Quanto alla facondia e alla scienza tirò fuori gesuiti e teatini, incaricandoli di sfruttare fino in fondo quello che era l’ultimo ritrovato della tecnologia: la stampa a caratteri mobili. Una vera diavoleria che per fare un libro ci metteva appena un mese, invece dei tre anni necessari fino a allora.
Nasce la propaganda
Non si fermò qui, il pontefice: fondò addirittura una istituzione per la diffusione della fede secondo l’insegnamento dell’erede di Pietro. Addirittura escogitò un nome apposito ad indicarla, che resiste tutt’oggi come molte delle cose inventate di là dal Tevere.
Nacque così Propaganda Fide, sacra congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. E con essa un termine che può suonare, a seconda dei casi, angelico o diabolico. Ognuno giudichi quando è l’un caso, e quando è l’altro.
Le vittime predestinate del Grande Semplificatore
Facile che si ricorra alla seconda classificazione pensando alla Germania nazista, madre di tutte le propagande nella loro accezione contemporanea. Un nome per tutti: Paul Joseph Goebbels, l’uomo che teorizzava la necessità di una razza umana libera da chi aveva difetti fisici o psichici, ed aveva lui stesso un piede malformato.
Fu lui ad inventare quella struttura raffinata quanto infernale che fu il mastice che tenne i tedeschi incollati al loro Grande Semplificatore.
Radio e cinema e giornali furono utilizzati con freddo e capace cinismo per fare di uno dei popoli più evoluti dei suoi tempi una manica di volenterosi carnefici di Hitler. “Più grande la menzogna, più disposta è la gente a credervi” era il suo motto. Ma per rendere verità la bugia non bastano i ritrovati più sofisticati della scienza e della tecnica. Ci vogliono altre due cose: il messaggio (semplice, chiaro, apparentemente lineare) e lo slogan.
Contro un nemico sfuggente
Il primo aveva come creatore il Fuehrer in persona. L’idea stessa di purezza della razza ben si sposava con un’altra caratteristica di ogni regime totalitario: la creazione dal nulla di un nemico identificabile ma sfuggente, pronto a minare le poche e caduche certezze del tedesco medio. Ecco creata la figura di Suess l’Ebreo, protagonista di uno dei film più tristemente diffusi nel Reich. Regia di Veit Harlan, tratto da un’idea dei più alti gerarchi dell’epoca.
Quanto allo slogan, Goebbels seppe declinarne a decine infondendone l’anima stessa della vita quotidiana dei tedeschi, dalle neopagane feste del raccolto alle adunate di Norimberga alle marce sulla Unter den Linden di Berlino.
I gas di Benito Mussolini
Il passo dell’oca ed il passo romano erano estremamente simili, come i discorsi di Hitler a Norimberga avevano qualcosa in comune con le apparizioni dal balcone di Piazza Venezia di Mussolini. Ma questi, a differenza di Hitler, era un giornalista e tale restò fino all’ultimo, mettendo una straordinaria conoscenza dei meccanismi dell’informazione al servizio della propaganda del fascismo. Il caso classico è quello della Guerra d’Etiopia.
Come gestire, allo scopo di creare il consenso, l’informazione proveniente da un fronte lungo migliaia di chilometri, dove nulla era scontato, per nascondere notizie come quelle sull’uso dei gas e valorizzare oltremodo i successi militari? Mussolini creò un raffinato sistema di informazione e propaganda che superava i monti e attraversava i mari.
I primi giornalisti embedded
La mattina a Roma, spesso direttamente alla sua scrivana, si decidevano i temi e gli argomenti della giornata (prassi ancora in voga tra i comunicatori di oggi). Quindi si stilava il testo di una serie di comunicati sull’andamento delle operazioni, tutti pieni di frasi a effetto e racconti dettagliati, e lo si spediva ad Addis Abeba per via telegrafica. Entro le nove del mattino i testi venivano distribuiti nella sala stampa a cui facevano riferimento gli inviati dei giornali italiani, i quali leggevano, scrivevano e a sera rimandavo in Italia quello che in Italia era stato deciso si scrivesse.
Quanto ai giornalisti, erano solo ed esclusivamente o in sala stampa, o al seguito delle truppe impegnate in operazioni a scarso livello di pericolosità e alto tasso di spettacolarità, di modo che potessero avere tante cose da scrivere, ma lontano dalle zone di guerra che contavano. Il principio del giornalismo embedded che conoscerà il suo trionfo nella guerra combattuta in Iraq dagli americani nel 2003, agli ordini di George W. Bush.
All’inizio fu Giulio Cesare
Guerra e propaganda, del resto, costituiscono un binomio che dura da secoli. A scoprirne le potenzialità fu Giulio Cesare, personalità eclettica come poche. Dopo la nascita del primo triumvirato fu spedito in Gallia Cisalpina. Non aveva né i soldi di Crasso, né il potere di Pompeo, ma aveva vissuto per anni nella Suburra, e sapeva come conquistare il favore del popolo di Roma. Il quale popolo, allora come ora, non si accontentava di eccellenti generali e di eroi, ma voleva dei miti. E lui costruì il mito di se stesso.
Cesare fu l’inviato di guerra al seguito dell’esercito che lui stesso comandava. Scriveva a cadenza regolare dei dispacci, detti Commentarii, in cui riferiva i suoi successi parlando in terza persona. Poi li spediva per corriere militare fino a Roma, dove i suoi partigiani avevano il compito di aprirli e darne pubblica lettura dalla tribuna dei comizi tributi, vale a dire di fronte alla Curia del Senato. Come ogni grande comunicatore, seppe usare uno stile asciutto e facilmente comprensibile ai meno colti, che faceva corrugare la fronte alla nobiltà senatoria ma avrebbe suscitato l’entusiasmo di Quintiliano. E, soprattutto, creò attorno alla sua figura quel consenso che gli fu necessario al momento del passaggio del Rubicone. Il resto è storia nota.
Una lezione che seppe fare propria, una ventina di secoli dopo, Winston Churchill.
Dal nostro uomo in Sudafrica
Era il 1899, e la Gran Bretagna era in piena espansione coloniale. Decisa a controllare le rotte da e per l’India, invase il Sudafrica scatenando la cosidetta Guerra dei Boeri.
Churchill partì al seguito del corpo di spedizione britannico, ma non prima di aver chiuso un contratto da inviato di guerra con il Daily Mail. Successivamente entrò direttamente nei ranghi dell’esercito. Insomma, anche lui inviato al seguito di se stesso.
Cadde nelle mani dei nemici. Ma riuscì ad evadere e scrisse per il Daily Mail un lungo reportage sull’argomento. Ebbe il buon gusto di non scriverlo in terza persona, ma ugualmente fu il lancio di una carriera politica già peraltro ben avviata. Potenza della propaganda.