Molti anni fa, quando era ancora un ministro di secondo piano, titolare del dicastero dedicato ai rapporti con l’Unione Europea, a Pierre Moscovici venne chiesto quale dovesse essere la nuova Europa che tutti andavano sognando. Lui rispose: “Vogliamo l’Europa del popolo, come dice Tony Blair. Ma la vogliamo grazie alla continuità o ad una rottura traumatica?”. Eccolo qui, Pierre Moscovici: socialista ma liberista, europeista ma francesissimo. Tutto meno che un rivoluzionario. Lingua lunga e grande capacità di fiutare cosa frulli nella testa delle masse.
Suo padre, del resto, era un grande psicologo e sociologo di famiglia ebraica venuto dalla Romania: da un lato all’altro dell’Europa, per sfuggire all’antisemitismo. Anche questo un particolare importante: ci sono argomenti che restano molto sensibili.
La Francia sopra tutto
Inutile dire della sua carriera universitaria: l’elite francese non si allontana mai dall’Ena. Esiste altra istituzione accademica che valga la pena frequentare? Ci vanno tutti: quelli di destra e quelli di sinistra. Verrebbe da pensare quello che si dice di Eton: ne escono che metà ha sviluppato l’idea non segreta di divenire capo del governo, e l’altra metà con la determinazione di impedire alla prima metà di realizzare il proprio intento.
Soprattutto, viene da chiedersi perché chi è destinato a pensarla diversamente sia costretto a studiare sugli stessi libri. Forse perché un conto è la destra, uno la sinistra, ma sopra di ogni altra cosa c’è la Francia.
Tra Parigi e l’Europa
Ad ogni modo Moscovici, che non è uno sciocco, per evitare storie e rognose rivalità ha deviato strada: da Parigi si è concentrato su Bruxelles. La cosa non gli ha impedito di togliersi la soddisfazione di fare il ministro delle finanze a casa sua. Ed è qui che è bene concentrarsi, per capirne il carattere e le caratteristiche.
Se Lionel Jospin, a cavallo del Millennio, lo mandò una prima volta a Bruxelles a studiare la materia, Francois Hollande ne fa il suo custode dei conti. E qui lui fa bingo, perché ottiene tutto quello che ci sia di più desiderabile per un francese che guarda a Bruxelles: il permesso di derogare alle terribili regole di bilancio imposte dal patto di stabilità.
Miracolo a Bruxelles
Molti ci provano, uno solo vince. Lui vince. “Veni, vidi, MoscoVICI”, latineggia l’Economist riferendo l’accaduto. Per la precisione, si tratta di una deroga di due anni al limite massimo per riportare entro la soglia del 3 percento il rapporto tra deficit e Pil. La regola che fa impazzire tuti i governi italiani, ad esempio.
I frutti del successo vengono colti immediatamente: Hollande lo ringrazia facendone il commissario all’economia di tutta l’Ue: se la presidenza della commissione è andata ad un Junker considerato uomo di Angela Merkel, la seconda carica tocca ai francesi. È l’Europa Carolingia, bellezza, e non ci puoi far niente.
Solo che la conferma da parte dell’Europarlamento (passo ineludibile) non va del tutto liscia: i popolari di mezzo continente, forse ingelositi dall’aver spuntato lui quel che loro non erano riusciti mai a vedere nemmeno con il cannocchiale, lo mettono sulla graticola. Moscovici dimostra nelle sue risposte un indubbio esprit de finesse, che poi è la capacità di ragionare dialetticamente.
Il candidato risponda
La domanda centrale gliela pone un anonimo deputato spagnolo: “Ci dica il nome di tre riforme economiche raccomandate dall’Unione che lei, da ministro delle finanze, ha avuto cura di realizzare nel corso del suo mandato”. Domanda trabocchetto: in cambio dei due anni di slittamento, i francesi avevano promesso di: 1) rivedere le regole del mercato del lavoro; 2) liberalizzare l’economia; 3) migliorare la politica fiscale. E niente o quasi era stato fatto. Il candidato rispose: “I bilanci statali da me stilati non hanno mai violato le regole comunitarie”. In Aula scoppiò il finimondo: se qualcuno avesse avuto in mano il libretto di Moscovici glielo avrebbe sicuramente strappato.
Eppure alla fine l’esame fu superato. Perché il candidato aveva avuto cura di mettere dalla sua parte la Preside, Angela Merkel. Fu così che lui ebbe l’incarico, ma a patto di non dar troppo fastidio alla Germania. Ancora una volta: l’Europa Carolingia.
Lui venne definito “una fetta di prosciutto in due fette di pane tedesche”, definizione che tutt’ora regge.
Atene va difesa
Questo non vuol dire che sia sempre disposto a dire di sì. Nel corso della terribile crisi finanziaria greca, lui ebbe il coraggio di scrivere una lunga lettera al Financial Times difendendo la serietà di Atene. “Hanno fatto sforzi senza precedenti in tema di politica fiscale, a partire dalle pensioni”, riconobbe ai greci, “ma anche sul sistema dell’imposta di valore aggiunto e sulla tassazione dei redditi personali”. Un giro di parole per definire lacrime e sangue. Forse è per questo che on gli è riuscito di diventare presidente dell’Eurogruppo quando l’iperliberista olandese Dijsselbloem ha ceduto il posto. Gli è stato preferito un portoghese, Mario Centeno.
L’Europa dell’insulto
Quanto a Dijsselbloem, è uno che pare abbia fatto a cazzotti con l’allora ministro dell’economia Varoufakis quando questi era intervenuto in difesa di Moscovici nel corso di una riunione assai calda. E la cui sensibilità politica e diplomatica venne tutta fuori al momento di definire i paesi dell’Europa Meridionale (e si riferiva an che all’Italia) come maniche di scioperati dediti a sprecare le loro grandi risorse tra alcol e donne. Matteo Salvini, che oggi si indigna per l’aver parlato Moscovici di “nessun Hitler, ma tanti piccoli Mussolini in giro per l’Europa”, dovrebbe ricordare anche questo.
Perché non è da ieri che in Europa fioccano gli insulti, più o meno meritati. A cominciare da quel simpatico epiteto travestito da acronimo con cui la stampa inglese generosamente indica Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. Mettete insieme le iniziali e vi verrà fuori, voilà, PIGS. Inutile la traduzione.
Una definizione che spopola sulla stampa sovranista d’Oltremanica.