Una foto, la stessa, campeggia sulle pagine dei principali giornali di tutto il mondo: quella di Luigi Di Maio che agita il pungo affacciandosi dal balcone di Palazzo Chigi, in segno di vittoria. Ma i commenti alle cifre del Def non sono gonfi di entusiasmo.
Quello che i grandi giornali vedono nel futuro dell’Italia è piuttosto un bivio, le cui alternative fanno – entrambi – scendere giù dalla schiena un brivido gelido. In poche parole: rischiamo di finire come la Grecia, secondo taluni, o l’Argentina, secondo altri.
Complice, secondo il Financial Times, l’atteggiamento di un Matteo Salvini che “ha dimostrato di voler dire cose diverse a seconda dell’interlocutore che ha di fronte” e di un Movimento Cinque Stelle che “ha dimostrato di non aver alcuna voglia di lasciare alla Lega il centro del palcoscenico” nei tempi che invece molti prevedevano.
Sintetizza non a caso l’Economist: “I populisti italiani hanno preso una china scivolosa che porterà il loro Paese verso l’abisso finanziario greco o argentino? Ci sono buone ragione per temerlo”. Studiare i precedenti diventa a questo punto molto istruttivo.
Come si è arrivati al tracollo della Grecia e quanto è costato uscirne
L’economia ellenica venne duramente colpita dalla crisi del 2008, con danni tremendi all’industria turistica che perse in due anni il 15% delle entrate. Soprattutto, però, emerse un dato sconcertante: per entrare nella zona euro Atene aveva truccato i propri conti pubblici, facendo apparire sano ciò che invece era molto malato. Il rapporto deficit/Pil, che secondo i parametri dell’UE non può eccedere il 3%, era in realtà attorno al 12%. Di conseguenza la Grecia ha cercato sempre più capitali sui mercati esteri, innescando un ciclo vizioso di debiti utilizzati per pagare debiti precedenti e spese correnti. Nel frattempo il rapporto deficit/Pil peggiorava costantemente mettendo sempre più a rischio la permanenza della Grecia nella moneta unica.
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Il costo del risanamento, appena raggiunto dopo otto anni di lacrime e sangue, è stato superiore all’intero prodotto interno lordo di paesi come la Danimarca o il Portogallo, ed il sistema economico greco ne è uscito particolarmente indebolito, con la cessione di asset fondamentali per l’economia nazionale come le infrastrutture portuali.
L’incubo argentino
Il caso dell’Argentina è quello di un autentico cortocircuito economico, in cui si sommano e si stimolano reciprocamente i difetti del liberismo e dello statalismo a libera spesa pubblica. Mauricio Macrì, l’attuale presidente, ha cercato di imporre una cura liberista e globalista, ma si è scontrato con l’ondata di protezionismo imperante a livello globale (ad iniziare dagli Stati Uniti). Alla Casa Rosada, prima di lui, sedeva Cristina Kirchner, proveniente dal peronismo di sinistra e populista nel sangue. La sua politica economica era stata fatta di protezionismo e spesa pubblica. Su questa base di partenza le decisioni di Macrì hanno avuto l’effetto di far esplodere il bubbone: a maggio il peso ha perso il 2°0 percento del suo valore, i capitali stranieri hanno preso la via della fuga, l’inflazione è arrivata al 30 percento. Economia sulle montagne russe, obbligatoria la richiesta di un prestito al Fondo Monetario Internazionale. Il futuro si vedrà, ma il presente non lascia presagire niente di buono. Il Pil dovrebbe calare di quasi il 2 per cento nel corso di quest’anno, poi chissà.
La teoria del complotto e quella del nemico esterno
Se il parallelo con la Grecia è quello che più facilmente viene in mente, c’è chi invece vede più probabile il realizzarsi dello scenario argentino. Scrive il sito Politico che un certo modo di fare politica all’argentina noi ce lo abbiamo nel dna. Tanto è vero che “già nel 2011 la destra italiana hanno usato la teoria complottistica per spiegare la tempesta finanziaria che portò lontano da Palazzo Chigi l’allora premier Silvio Berlusconi”.
Ugualmente “la retorica di Matteo Renzi fece passare per uno scontro diplomatico con la Commissione Europea i negoziati sui limiti di bilancio, e questo è un modello che fa un gran comodo ai populisti che sono ora alla guida del Paese”.
Ora si è fatto un passo avanti, superando il confine tra “una bolla di spesa da far seguire da una opportuna tirata di cinghia – cosa comune finora in Italia – e i fatto che i governo intende fare una nuova normalità e non più un evento straordinario l’aumento della spesa in deficit”.
Conclusione del discorso (secondo l’Economist): “Una volta iniziato, un ciclone finanziario è qualcosa di molto difficile da riportare sotto controllo”. Ha dichiarato stamattina il viceministro leghista dell'Economia Massimo Garavaglia a Repubblica, definendo la manovra una "lucida follia": "Siamo di fronte a una scommessa, che funziona se cresciamo più del previsto. L'obiettivo è non essere più ultimi in Europa, ma arrivare almeno a metà classifica". Se andasse male, secondo Garavaglia, "vuol dire che questo Paese ha dei problemi molto seri". Il leghista condanna le politiche dei precedenti governi e sostiene che "la ricetta precedente avrebbe portato il Paese a scatafascio. L'alternativa alla nostra sfida era una super-patrimoniale. Basta leggere il Def di chi ci ha preceduto: c'erano solo tasse in più".