A un importante summit internazionale è meglio parlare (bene) la propria lingua o (male) l’inglese? Se lo chiede Federico Rampini sulle pagine di Repubblica, prendendo spunto dall’intervento del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, ospitato dentro il Council on Foreign Relations, il più importante think tank di politica estera di New York e Washington.
Presentato agli americani come un esponente relativamente moderato e pragmatico della Lega, “Giorgetti venerdì sera nella prestigiosa Harold Pratt House sulla 68esima Strada, circondato dai ritratti della élite di geopolitica e dalle boiserie ottocentesche, ha pronunciato un testo incomprensibile sia agli americani che agli italiani. Leggeva in una lingua a lui quasi sconosciuta, con una pronuncia inventata”, ha scritto Repubblica.
Il peggio è venuto quando “si è ostinato a rispondere a braccio, sempre nel suo inglese maccheronico, alle domande. Interrogato sulla posizione del governo riguardo alla crisi libica, ha detto, letteralmente: ‘French out’ e ‘Better a dictator’. Forse se avesse parlato in italiano avrebbe avuto qualcosa di più articolato da dire, non solo ‘fuori i francesi dalla Libia’ e ‘si starebbe meglio con un dittatore’”.
Il suo discorso era l’occasione per rassicurare la business community italo-americana che può svolgere un ruolo prezioso per riportare investimenti e cambiare la percezione di Wall Street sul rischio Paese.
“Brutti scherzi gioca il non sapere l’inglese, la lingua globale per eccellenza”, osserva Rampini. “Non giova nei summit dove è utile rivolgersi direttamente ai leader stranieri.
C’è però "un handicap ancora peggiore: credere o fingere di sapere l’inglese. È molto meglio avere l’umiltà di parlare all’audience straniera nella propria lingua, e affidarsi alla competenza professionale degli interpreti per tradurre dettagli, sfumature, sottigliezze".
D’altronde "c’è chi per principio e per orgoglio nazionale usa sempre la propria lingua, e non c’è bisogno di essere sovranisti dell’ultima ora: così fan spesso i leader francesi all’estero, quasi sempre i cinesi e i russi”.
Quando i politici italiani hanno un problema con l’inglese
Giorgetti non è il solo a masticare un inglese stentato. Ecco chi se la cava meglio e chi peggio secondo due articoli del Fatto Quotidiano e Tpi:
Giuseppe Conte: Per il premier la prova del fuoco è stato il G7 in Canada. “Tra chiacchierate informali e conferenze stampa ufficiali, Conte è stato costretto a mettersi alla prova. In particolare, il presidente del Consiglio ha parlato in inglese davanti alle telecamere nel corso di una conferenza stampa con il premier canadese Justin Trudeau. Zoppicante come Renzi o Berlusconi o fluido e sicuro come Monti e Gentiloni? Probabilmente il premier del governo M5s-Lega si posiziona in una terra di mezzo. Pur non padroneggiando pienamente la lingua, riesce comunque a esprimersi in maniera accettabile”.
Matteo Salvini: il ministro dell’Interno e vicepremier “ha sempre evitato di esprimersi in inglese sia nella sua attività di europarlamentare che nei convegni internazionali. Fa eccezione un breve e incerto intervento sui terremotati a Coblenza, seguito da un lungo discorso rigorosamente in italiano”.
Luigi Di Maio: l’inglese del ministro del Lavoro “è zoppicante. Di Maio ha sempre risposto in italiano alle domande dei giornalisti stranieri. Unica occasione in cui si è messo alla prova con la lingua è stata un discorso all’università di Harvard, letto con più di qualche inciampo”.
Silvio Berlusconi: l’inglese è sempre stato un punto debole per l’ex premier. “Legge con fatica discorsi scritti, come quando si rivolse in inglese al Congresso americano, e ogni tentativo di improvvisazione si rivela fallimentare. Indimenticabile la sua ode estemporanea alla bandiera a stelle e strisce che lanciò il tormentone nos only”.
Matteo Renzi: “Non si tira mai indietro davanti a un’intervista o a un dibattito in lingua. Ma l’inglese dell’ex Presidente del Consiglio è stato spesso preso di mira da media e social, soprattutto per la pronuncia non esemplare”.
Paolo Gentiloni: l’ex presidente del Consiglio “maneggia l’inglese più che bene, dote apprezzata, a quanto pare, nei palazzi della politica romana fin dagli anni Novanta”.
Laura Boldrini: l’ex presidente della Camera “ha lavorato a lungo con le Nazioni Unite, rilascia sempre interviste in inglese ai media stranieri e, ovviamente se la cava più che bene”.
Emma Bonino: “L’inglese non è certo un ostacolo per la leader radicale, grazie ai suoi incarichi come commissario europeo dal 1995 al 1999 e Ministra degli Esteri dal 2013 al 2014, ma anche a una laurea in Lingue e Letterature Straniere conseguita alla Bocconi di Milano nel 1972”.
Virginia Raggi: “Pronuncia perfetta e ampio vocabolario: la sindaca di Roma è forse la politica che più di tutti parla inglese in modo impeccabile”.
Nicola Zingaretti: Non ancora pervenuto (ma l'occasione arriverà presto per il neosegretario dem).
Aggiornato il 5 marzo 2019 alle ore 15,00.