Per gli imprenditori del Nord che mal sopportano le ricette economiche del M5s e per gli ex elettori di Forza Italia approdati al Carroccio il punto di riferimento è lui. Giancarlo Giorgetti, la "forza tranquilla" di via Bellerio, il bocconiano con ottime entrature nell'alta finanza e rapporti cordiali con Mario Draghi, contraltare allo stile esuberante e all'onnipresenza social del leader Matteo Salvini. In poche parole, un "uomo dell'establishment" che come tale viene percepito dai pentastellati, non solo quelli di rito movimentista. Ovvero, il bersaglio perfetto qualora, dopo il gasdotto Tap, si debba far ingoiare un altro rospo al proprio elettorato. Nonché il capro espiatorio ideale nel caso, dopo le elezioni europee, l'esecutivo salti e non si voglia, almeno in pubblico, additare il ministro dell'Interno come l'unico responsabile.
Lo strappo sulla Tav non è facile da ricucire
Nel gioco delle parti che tiene in piedi il governo gialloverde, è compito del sottosegretario alla presidenza del Consiglio farsi carico di mantenere la barra abbastanza dritta da conservare i consensi di quei ceti produttivi che mal sopportano l'alleanza con il M5s e gradirebbero un ritorno alla vecchia formula del centrodestra. Giorgetti non ama certe fughe in avanti dell'alleato, ed è ricambiato. Dopo il compromesso provvisorio che ha consentito di rimandare la decisione sulla Tav, i toni tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, che la settimana scorsa si erano fatti piuttosto accesi, sono tornati alla normalità. Ma lo scontro sulla Torino-Lione ha comunque fatto esplodere le contraddizioni interne alla maggioranza come mai avvenuto in precedenza e, se i vicepremier non possono permettersi di apparire troppo in disaccordo per troppo tempo, ai gradini subito successivi delle gerarchie di partito le frecciate reciproche, a microfoni spenti e non, proseguono.
A fare il punto sulla Tav, nello studio di Lucia Annunziata, è stato lo stesso Giorgetti, precisando che solo il Parlamento può mettere, nel caso, la parola fine al progetto e, ad ogni modo, la strada del referendum rimane quella favorita. Entrambi scenari che vedrebbero in tutta probabilità prevalere i sì alla realizzazione dell'infrastruttura. Attaccare il sottosegretario, è la logica, consente di tenere le posizioni senza attaccare direttamente Salvini. Gli strali verso Giorgetti giunti in queste ore dal fronte grillino sembrano però nascondere anche l'irritazione per i giudizi da lui espressi nei confronti del M5s, in particolare quelli contenuti in un retroscena pubblicato dal Corriere la scorsa settimana.
"Sono ciò che noi siamo stati"
"Da qualche giorno non c’è esponente del Carroccio disposto a scommettere un euro sulla durata del governo dopo le Europee", scrive Verderami, "quando lo sosteneva il sottosegretario alla Presidenza erano in pochi a dargli retta. Il fatto è che la frequentazione quotidiana a palazzo Chigi gli ha consentito di stilare una sorta di profilo degli alleati a cinquestelle, che «sono ciò che noi siamo stati», che «fanno gli errori che facemmo noi quando arrivammo al governo»: «E noi allora andammo a sbattere». Il ricordo del lontano passato è un modo per esprimere una previsione sul prossimo futuro".
E ancora: "Venire additato per aver visto Draghi, per esempio, lo considererebbe un gesto naif se l’accusa provenisse da un grillino di prima nomina. Ma se l’indice lo alza «chi mi definisce un dinosauro della politica dopo essere stato per anni nella Lega e aver persino diretto la Padania...». Ecco, questo lo fa sorridere mestamente. E gli fa trarre la conclusione che lo scontro sulla Tav è davvero l’ultimo dei problemi".
L'amico americano
Il riferimento è, come ovvio, a Gianluigi Paragone, oggi senatore pentastellato, che a Radio Cusano Campus ha pronunciato parole assai dure: "Salvini è stato uno dei primi insieme a noi a capire che la politica delle élite fa male ai popoli, non capisco perché non si accorga che Giorgetti è l'interlocutore della tela che parte degli Usa. Sta dettando i tempi della Lega di Salvini o sta dettando i tempi di qualcos'altro?". Il riferimento è al recente viaggio negli Usa, dove il sottosegretario ha incontrato i rappresentanti di alcuni importanti fondi americani. Una visita che non dovrebbe stupire: è noto che il primo sostenitore internazionale della creazione del governo Conte è stato Donald Trump ed è noto che, qualora lo spread vada fuori controllo e la Bce non intervenga, si guarderà a Washington perché spenga l'incendio.
"Giorgetti rappresenta il partito più anziano in Parlamento, si fa carico di rappresentare una serie di poteri. Napolitano scelse proprio Giorgetti come uno dei suoi saggi, nel periodo in cui noi contestavamo l'operato di Napolitano. Mattarella - rincara il senatore M5s - parla per conto degli Usa, Napolitano idem, Giorgetti idem. Non vorrei che questo discorso dell'apertura alla Cina sia uno dei punti d'inquietudine degli americani. La nostra forza geopolitica sta nel Mediterraneo e quindi siamo partner degli Usa ma non esclusivi".
Il viaggio della Meloni è stato un segnale?
Per comprendere le dinamiche dello scontro in atto tra Lega e M5s non si può prescindere da questo punto. Sull'avvicinamento alla Cina e sui ritardi nel saldo dei fondi per gli F35, entrambe mosse che hanno irritato gli Usa, c'è il bollino del M5s. Al di là della simpatia personale che Trump avrebbe per Conte, se a maggio l'esecutivo si sfasciasse appare abbastanza chiaro quale sarebbe la prima scelta degli Usa. Non è un eccesso di dietrologia supporre che la partecipazione di Giorgia Meloni alla recente convention conservatrice di Washington, che ha visto il presidente degli Stati Uniti come oratore principale, possa essere stata un segnale di approvazione per un'eventuale resurrezione della vecchia formula del centrodestra.
Da questo punto di vista, il M5s sembra aver subodorato qualcosa e appare pronto, in caso di politiche anticipate, ad additare gli Usa come corresponsabili della fine dell'esecutivo, magari rilanciando quel pizzico di antiamericanismo che tanto fa presa sulla quota, consistente, di elettori che proviene dalla sinistra radicale. Ancora più tranchant di Paragone è stato Ignazio Corrao, europarlamentare pentastellato che, ad Agorà su Rai 3, è tornato sulla missione di Giorgetti in Usa, puntando il dito sui suoi incontri con due ex ministri dell'Economia oggi alti dirigenti di due banche d'affari: Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli.
L'avvento di Zingaretti ha cambiato il quadro
"Non mi risulta che sia andato per conto del governo, con Siniscalco e Grilli", afferma Corrao, che poi bolla Giorgetti come "persona notoriamente appartenente al sistema", nonché "una persona molto influente nelle Lega, che appartiene comunque a dei meccanismi di potere". "Lui va in giro con Grilli, con Siniscalco, appartiene ai Saggi di Napolitano, quindi ha sicuramente interesse a mantenere degli equilibri che appartengono all'ancien régime italiano", rincara l'europarlamentare, "noi invece siamo assolutamente per il cambiamento", ribadisce l'europarlamentare M5s. "Con noi la Lega sta avendo la possibilità di espiare i propri peccati", conclude, "Salvini deve decidere se vuole lavorare per gli italiani insieme al Movimento 5 stelle o se ritornare al 10% facendo la stampella di Berlusconi".
Dopo aver subito per mesi un'erosione dei consensi a favore dell'alleato, il M5s, sentendo più vicina la prospettiva delle urne anticipate, ha quindi deciso di giocare in attacco. E ha pure trovato gli argomenti giusti per un'eventuale campagna giocata contro la Lega, che, se si andrà il voto, potrà essere additata come traditrice del "popolo" utilizzando Giorgetti come punching ball, il nemico interno che ha fatto tramontare il sogno del cambiamento. Un atteggiamento più aggressivo che poggia su un fattore esterno intervenuto di recente: la vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie del Pd. Quando i renziani dominavano ancora la scena, il M5s era all'angolo: Salvini aveva due forni, Di Maio uno solo. Con un centrosinistra guidato da una figura disposta al dialogo con i grillini, il quadro è cambiato del tutto.