Sono passati almeno due anni da quando il tema della propaganda politica su internet, della disinformazione via social, e di possibili interferenze digitali nei processi democratici è esploso in concomitanza con la campagna elettorale americana del 2016. Da allora, da una parte all’altra dell’Atlantico, è stata una sequela di annunci, allarmi, dichiarazioni, proposte. Eppure ancora si fa fatica a individuare ragionamenti articolati su questi fenomeni, oltre che a raccogliere elementi fattuali e dati.
Ora finalmente, almeno in Italia, c’è chi ha provato a esaminare alcune di queste questioni addirittura attraverso un dibattito partecipato, che vedesse il coinvolgimento di diversi protagonisti del settore. Fino ad arrivare a stilare alcune raccomandazioni specifiche, una serie di norme di base, cosa fare e cosa non fare. Che ovviamente sono un punto di partenza, e non un punto di arrivo. Ma, per far decollare davvero il dibattito e affrontare tutte le sfide - e sono tante - della democrazia al tempo della società digitale di massa, è necessario avere almeno un terreno comune di riferimento. Una rampa di lancio.
Il rapporto Persuasori Social
In quest’ottica viene pubblicato oggi Persuasori Social, un rapporto sulla trasparenza e la democrazia nelle campagne elettorali digitali, nel mondo e in Italia. Realizzato da Punto Zero, un laboratorio partecipato per l’innovazione critica promosso dal Centro Nexa su Internet e società del Politecnico di Torino, dal Centro per la Riforma dello Stato di Roma e dalla Fondazione P&R, e coordinato dal giornalista e ricercatore Fabio Chiusi, lo studio analizza fenomeni nuovi e complessi del digitale che hanno sempre di più un impatto sulla politica.
Stiamo parlando della pubblicità politica personalizzata, delle possibili ingerenze straniere in un Paese attuate con strumenti digitali, delle bolle ideologiche che si teme possano autoalimentarsi sui social, dei bot politici, i profili finti che cercano di condizionare il dibattito online; della par condicio, del silenzio elettorale e del divieto di sondaggi a ridosso del voto, ridotte a pallidi simulacri nell’era digitale.
L’ansia per uno scenario cangiante e complesso, e dai contorni spesso sfuggenti, ha prodotto anche in Italia richieste di regolamentazione, spesso legate al tema della propaganda personalizzata sui social media, o delle cosiddette “fake news”.
Per le elezioni 2018 - ricorda il rapporto - l’Authority ha anche emanato delle linee guida da applicarsi durante la campagna elettorale che hanno promosso, tra le altre cose, la parità di accesso ai servizi e agli strumenti forniti dalle piattaforme tecnologiche alla politica, e “la necessità, per le fattispecie in cui è possibile”, che i messaggi pubblicitari elettorali specifichino “il soggetto politico committente, alla stregua di quanto già avviene per i messaggi politico-elettorali sulla stampa quotidiana e periodica”.
Mentre sul versante delle “fake news” viene ricordato il lancio del “bottone rosso” della polizia postale, un controverso sito con cui segnalare casi di disinformazione. “L’iniziativa ha collezionato forti critiche a livello internazionale”, ricorda il rapporto. Che alla fine, dopo aver sentito una serie di stakeholder - piattaforme, partiti, agenzie di comunicazione, Authority, sindacati, organi professionali, giornalisti ed esperti - arriva a formulare una sintesi, ovvero alcune raccomandazioni.
Cosa fare e cosa non fare
In particolare, rispetto alla pubblicità politica personalizzata, il rapporto ribadisce la necessità di una maggiore trasparenza. Come? A ogni utente devono essere fornite informazioni chiare sul committente dei messaggi, i loro pubblici bersaglio, e i costi sostenuti, consentendo tramite un “archivio” di consultare l’insieme dei messaggi. (è più o meno quello che ha promesso di fare Facebook sulla sua piattaforma entro l’estate).
No invece a divieti per il microtargeting politico, o a una pericolosa regolamentazione della verità o falsità dei contenuti diffusi online.
E qui non manca una stoccata ai media tradizionali. “Una legge sulle ‘fake news’ o, più precisamente, la disinformazione sui social media è da rifiutarsi in quanto esiste il concreto pericolo di eccedere nella regolamentazione, per esempio vietando la pubblicità mirata, limitandone indebitamente le scelte contenutistiche o reprimendo libertà di satira, espressione e cronaca”, scrive il rapporto. “Inoltre, è considerato un intervento di natura sproporzionata rispetto alla reale natura del fenomeno che non nasce con i social media ma riguarda (primariamente) i mezzi di informazione tradizionale, dai giornali alla televisione”.
Sul rischio d’ingerenza straniera a mezzo social, il rapporto sostiene che non sarebbe un problema che richieda nuove soluzioni di policy-making. Non solo per la mancanza di prove dell’esistenza di un fenomeno rilevante, per quanto riguarda almeno l’Italia; ma anche perché si rischia di fare più danni che altro. “Per quanto non venga sottovalutato il fatto che la questione dell’ingerenza straniera nel processo democratico a mezzo social network può — e potrà — presentare aspetti problematici, non viene ritenuto necessario un intervento specifico”, dice la ricerca. “Da un lato, per la convenuta mancanza di prove su tentativi compiuti o in atto di potenze straniere di influenzare il processo democratico in Italia tramite propaganda digitale; dall’altro, per la considerazione più ampia secondo cui una democrazia liberale e pluralista deve contenere in sé gli anticorpi per disinnescare — con lo spirito critico — questo tipo di minacce”.
Sulla questione degli anticorpi e dello spirito critico, tanto fondamentali quanto fragili, sarebbe sicuramente da scriverci una ulteriore ricerca.
Sui bot politici viene specificata l’importanza di distinguerli chiaramente dai profili di utenti umani. Una raccomandazione che sembra scontata ma che non lo è. Va anche detto, e livello più generale, che sarebbe sempre importante specificare quando viene utilizzato un bot per interagire con umani (ricordate il caso Google Duplex?).
Ad ogni modo, scrivono gli autori di Persuasori Social, “l’uso di reti di bot (“botnet”) a scopi politici deve essere dichiarato dai soggetti politici che vi fanno ricorso. I profili automatizzati devono essere identificati come tali dalle piattaforme nei confronti degli utenti”. Ma anche qui no a divieti, o alla criminalizzazione dell’uso dei bot in politica.
Interessante infine la posizione sulle attuali regole relative a par condicio, silenzio elettorale e divieto di sondaggi: la raccomandazione è di non estenderle anche alla Rete.
“Le dinamiche di funzionamento delle piattaforme digitali infatti le renderebbero nella migliore delle ipotesi inutili, e nella peggiore dannose per la libertà di espressione degli utenti”. Invece andrebbero riviste “le norme attualmente esistenti in ambito offline”, perché inattuali e inefficaci nel contesto comunicativo contemporaneo, scrive il rapporto.
Infine, sì a maggiori ricerche sulle bolle ideologiche sui social senza arrivare però anche in questo caso a leggi ad hoc. Piuttosto, un appello ad avere acceso ai dati.
“I social media aumentano l’accesso all’informazione, non lo diminuiscono”, ricorda il rapporto. “È invece necessario incentivare la ricerca, così da dirimere le contrastanti evidenze scientifiche attualmente esistenti circa gli effetti dei social media sul pluralismo e la radicalizzazione politica. Per riuscirci, le piattaforme digitali devono fornire i dati necessari a istituzioni, giornalisti e ricercatori”.