Scrivono i quotidiani che sia Salvini, sia Di Maio “hanno chiesto di essere sistemati al primo piano, nell'ala più antica di Palazzo Chigi. E, soprattutto, a fianco delle stanze riservate al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte”. Lo stesso schema per cui Salvini, l’altro giorno, ha deciso di non andare a Bruxelles per un delicato vertice sull’immigrazione preferendo presentarsi a fianco del premier, impegnato a chiedere la fiducia al Senato. Sull’altro fianco di Conte, fisso e altero come un pretoriano, sedeva Di Maio. E addio a quella prassi risalente a decenni fa per cui il premier occupa il piano nobile del palazzo che fu voluto da Papa Chigi, nel Seicento, ed i rampanti vice di questi messi quasi in soffitta, al terzo. Magari a spiarsi l’uno con l’altro.
Spazio, soffitti alti, pareti lontane l’una dall’altra quanto quelle di una basilica precristiana, scrivanie: il potere misurato con il metro dell’architettura, sia essa pubblica o intimista, e della burocrazia. Qual è il ministro dell’economia di cui non è stato scritto nemmeno una volta che “siede alla scrivania di Quintino Sella”? (Risposta: Tria, naturalmente, ma tempo una settimana e capiterà anche a lui). Perché più ampia è la scrivania, più lusingato pare debba essere chi vi si sieda a lavorare.
Lo scrittoio di Napoleone
Il Quirinale, ad esempio, conserva ancora lo scrittoio su cui Napoleone firmava i suoi editti da Re d’Italia, anche se i Presidenti si guardano bene dall’usarlo. Ma quando ricevono le delegazioni dei partiti per le consultazioni, e magari bocciare qualche ministro, lo fanno nello Studio alla Vetrata, che corrisponde alle stanze che Gregorio XIII Boncompagni si fece sistemare dal Mascarino per guidare lo Stato della Chiesa, ed esercitare tutto il suo potere temporale.
L'importanza di trovarsi al posto giusto
Non può stupire allora che gli alloggiamenti – provvisori o definitivi che siano – nei palazzi del potere stimolino la fantasia, titillino l’ego, soprattutto in quanti da quelle stanze si sono sentiti esclusi, immeritatamente, per anni. Perché la politica è anche cosa materiale, fisica, pratica, come pratico e immateriale al tempo stesso è il potere: esiste in quanto lo si esercita. Se non lo si esercita, fa la fine del Cavaliere Inesistente di Italo Calvino. Si capisca, pertanto, se due vicepresidenti del Consiglio in queste ore sembrano divisi da sorda lotta per prendersi gli spazi a fianco del loro diretto superiore. Perché il potere, oltre a tutto il resto, è anche incline all’osmosi: si mettano insieme due soggetti, uno più potente e l’altro meno, e si noti quanto esso trasmigri dall’uno verso l’altro.
D'Alema e Rutelli non fanno a metà
Non che la cosa sia garanzia di pacifica convivenza. Nel 2006, secondo governo Prodi (quello della “maggioranza sexy” che durò due anni) il terzo piano era divenuto un mondo troppo piccolo per due, e pazienza se in effetti le sue stanze siano tra le più lussuose dell’edificio. Anzi, era proprio questo il problema: troppo lussuose, troppo attraenti. Massimo D’Alema e Francesco Rutelli se le litigarono, per interposta persona, a lungo, a nome e per conto dei rispettivi staff. Dietro c’era anche una sorda contesa politica: la maggioranza sexy del centrosinistra era anche allora impegnata in quella contrapposizione tra le sue due anime (centrista e di sinistra) che mai è stata risolta.
Scalfaro sfratta Berlusconi
Silvio Berlusconi, all’epoca del suo primo governo, era talmente sicuro di durare sino alla fine dei tempi da occupare il primo piano e far ristrutturare a suo gusto l’appartamentino che Palazzo Chigi racchiude, nel suo intimo, uso foresteria. Nessuno dei suoi osò dire né ahi né bai, anche perchè vicepremier era il discretissimo Gianni Letta. Ma dopo otto mesi Umberto Bossi gli tolse la fiducia, e lui dovette presentarsi al Quirinale, proprio nello studio che era stato di Gregorio XIII. Trovò seduto alla scrivania Oscar Luigi Scalfaro. I due non si amavano. Berlusconi esordì con modo di fare accattivante, cercando di spiegare che lui da Palazzo Chigi proprio non se ne poteva andare, anche per via di quei soldi spesi di tasca sua nella ristrutturazione. E Scalfaro lo liquidò con un: “Ci metteremo una targa di ringraziamento”.
Berlusconi stacca l'assegno per riportare la pace
L’allora Cavaliere ebbe modo di assaporare le gioie di una certa particolare forma di dispute condominiali quando decise di aprire la nuova sede di Forza Italia, in un palazzo di piazza san Lorenzo in Lucina 3.
Il litigio tra i suoi colonnelli fu così aspro che per sedarlo dovette aprire il portafogli e staccare un altro assegno mensile: ulteriori 20.000 euro per farsi locare un’altra parte dell’edificio, e accontentare tutti. Valore complessivo dell’operazione: 80.000 euro mensili, erogati su due piani dell’edificio storico (anche qui, il primo e il terzo) destinati a due schieramenti che da allora avrebbero scrutato l’uno l’altro, pronti a cogliere il destino di più di una carriera a seconda dello spazio assegnato.
Le stanze dell'Hotel Lux
Del resto anche sul versante opposto, quello del socialismo reale, stanze e destini sono due cose che si sono intrecciate molto spesso. A Mosca, nell’epoca di Stalin, esisteva l’Hotel Lux, albergone usato dal Pcus per ospitare i quadri dei partiti comunisti occidentali finiti in esilio, o venuti per costruire i presupposti per la Rivoluzione Mondiale. Si capiva fin da subito la considerazione di cui essi singolarmente godevano presso il Segretario Generale: bastava vedere il numero di camera. Camera che poi – erano i tempi delle purghe – poteva all’improvviso restare vuota, senza un motivo apparente. E allora tutti sapevano quello che era successo. Ma nessuno lo diceva ad alta voce.
Il sottosegretario che doveva imparare a vivere
Nella Dc invece esisteva una sola stanza importante, ed era quella della direzione nazionale. Era questa, e non l’ufficio del segretario, che impegnava tanta parte del piano nobile di Palazzo Cenci Bolognetti. E in mezzo alla stanza il ritratto di Sturzo e il busto di De Gasperi, come a dire che i segretari erano solo transeunti, si chiamassero pure Rumor, De Mita o Fanfani.
Il quale Fanfani, all’epoca del suo ultimo governo, ebbe modo di essere informato che, ancor prima della nomina, un aspirante sottosegretario aveva avuto l’ardire di presentarsi al ministero sua prossima destinazione per prenotarsi, per l’appunto, la stanza migliore. Con il Rieccolo non si scherzava, e fu così che il 79nne Fanfani, nella stanza della direzione nazionale, dette lettura della lista dei sottosegretari. E fu notato che un certo nome non c’era. “Questo deve imparare a vivere”, tagliò corto lui.
Franceschini non ci resta male
Quanto alla stanza della direzione nazionale, finì quasi a fare da magazzino quando la Dc lasciò il posto al Ppi, che poi si scisse e dalla scissione scaturì anche una divisione delle stanze di Palazzo Cenci Bolognetti. Fu deciso di far largo ai giovani, ma non troppo. Venne allora nominato vicesegretario Dario Franceschini, che ebbe una stanza tutta sua. Vicino al bagno.
Ma c’è poi di che essere così spasmodicamente attenti alla logistica dei palazzi del potere? Franceschini non se ne curava troppo (nemmeno quando qualcuno sbagliava porta: è successo veramente). Magari aveva ragione. Il perché che lo spiega la storia recente di Palazzo Chigi, e con questo episodio si chiude la faccenda.
Conviene litigare per un ufficio a Palazzo Chigi?
Lo scorso anno, d’estate come adesso, la Presidenza del Consiglio venne colpita da una vera e propria invasione di insetti (persino scorpioni e blatte, riferiscono le cronache) sorpresi a scorrazzare liberamente per i corridoi della sede del governo. Si fosse trattata di una normale abitazione privata sarebbero in molti a declinare cortesemente di fronte ad un’offerta di trasferimento. Ma quello è Palazzo Chigi, voluto da un papa per celebrare la propria famiglia che metteva pace in Europa dopo la Guerra dei Trent’anni. Difficile dire di no. Soprattutto se si pensa di potere, prima o poi, rivedere gli equilibri che reggono la grande politica europea.