Aggiornato il 23 marzo 2019 alle ore 7,28.
“Fascism” in inglese, “Faschismus” in tedesco, “fascismo” senza intermediazioni in spagnolo e portoghese: cento anno fa, in un’auletta dappoco che ospitava il bivacco di uno sparuto manipolo, veniva coniata una delle due parole che l’italiano del Novecento avrebbe regalato al vocabolario delle altre nazioni.
Era il 23 marzo del 1919: nascevano i Fasci Italiani di Combattimento. Un uomo solo al comando: Benito Mussolini, ex combattente e reduce, maestro elementare riottoso e giornalista di geniaccio. Rivoluzionario di vocazione nonché, leninianamente, di professione.
Seguiva le sue indicazioni un esiguo corteo di arditi, socialisti rivoluzionari, futuristi e piccoloborghesi impauriti.
Cento uomini, non uno di più. A dirla tutta, un fiasco bello e buono. Nessuno si accorge di loro.
Poco importa: Mussolini era di matrice socialista soreliana, sapeva bene che un’elite pronta a tutto, soprattutto se chiamata allo scontro con una politica esausta ed una massa femminea, può andare molto lontano.
E lui la massa una femmina considerava (con la stessa considerazione che può avere per una donna chi non è abituato a vederne altro che l’aspetto erotico-riproduttivo). Quanto alla politica esausta, stanca ed esaurita era quella di quell’epoca, ed il sonno della politica genera mostri.
L'ostetrico della Storia
Teatro della venuta al mondo di un tal movimento, che avrebbe contribuito attivamente alle peggiori distruzioni della storia dell’Umanità, fu una sala del Circolo per gli interessi industriali e commerciali in quel di Milano, collocata in Piazza Sansepolcro.
Qui Mussolini, precedendo una definizione che di lui avrebbe dato Piero Gobetti, funse da ostetrico della Storia. Quella stessa storia che (sempre Gobetti lo scrisse) “non sapendo capirla, egli interpretava per miti”.
E per miti Mussolini, quel giorno, prese a rivolgersi agli italiani.
La sua mitopoietica era limitata, ma efficace. Disarticolata, ma incisiva. Priva di verità, e di conseguenza del tutto più credibile per chi rifiutava il mondo moderno come si andava profilando dopo la Prima Guerra Mondiale.
Non è un caso, quindi, se quelle duecento orecchie si drizzarono all’unisono in piazza Sansepolcro udendolo parlare di Vittoria Mutilata, di Italia umiliata, di tradimenti perpetrati alle spalle e congiure delle democrazie straniere.
La colpa, inevitabilmente, era della debolezza dei partiti italiani. Cioè della classe politica postrisorgimentale che ancora pensava di poter gestire il Paese. A cominciare dalla Monarchia.
Sì, perché il Mussolini che non toccherà mai il Re e concluderà i Patti Lateranensi – è cosa nota – in piazza Sansepolcro si professa autenticamente anticlericale e repubblicano. Ma se in entrambi questi casi avrà modo di cambiare idea, un passaggio del discorso di Sansepolcro lo vedrà fedele fino all’ultimo giorno.
Il passaggio è questo: “Non si fonda un partito, oggi, ma si dà una spinta a un movimento. Si crea semmai l’Antipartito, perché il fascismo è una realtà di vita”. Promessa mantenuta. Anche il Partito Nazionale Fascista, quando nascerà, tutto sarà meno che un vero partito quanto piuttosto un movimento volto, paradosso di ogni regime, alla soffocante stabilizzazione dei pensieri e dei comportamenti.
Insomma, il fascismo è appena nato e già si sa dove tira a parare. Basta volersene accorgere.
Il problema che questa volontà non c’è, perché a Milano ed in Italia, come ai tempi della peste del Manzoni, il buon senso ha lasciato spazio al senso comune.
Il vero pericolo, pensano tutti ad iniziare dagli industriali che ospitano quella mattina Mussolini e i suoi seguaci, non può che venire da sinistra, dal socialismo.
Non è ancora esploso il Biennio Rosso, ma le prime avvisaglie si iniziano a notare. A metà febbraio un corteo imponente di socialisti è sfilato per Milano, in modo pacifico. E Mussolini commenta, dalle colonne del “Secolo d’Italia”: “Dobbiamo combattere contro la Bestia ritornante”.
I primi morti
Tempo poche settimane e già per le strade si contano i morti: quattro, nell’assalto alla sede de “L’Avanti!”.
Scrive Federico Chabod che è proprio questa paura del Pericolo Rosso che attanaglia alta borghesia, latifondisti e ceto medio urbano, a scatenare chiunque sia disposto a cavalcare la tigre di un reducismo frustrato ed un futurismo immaginifico.
Mussolini non ha molte truppe, ma tanto fiuto. Questo basta, anche se nell’immediato la prova della democrazia lo tradisce.
È infatti il 1919, anno del suffragio universale maschile e della prima legge elettorale proporzionale.
Ai Fasci di combattimento non basta presentarsi con un programma socialrivoluzionario (abolizione del Senato, partecipazione degli operai alla gestione delle fabbriche e dei servizi pubblici, nazionalizzazione delle fabbriche di armi). Finiscono, uscendo dalle urne, tra gli ultimi.
Qui si compie l’ultimo passo della trasformazione: lotta su due tavoli, quello elettorale e quello rivoluzionario. Tanto si sa che sarà il secondo a dare i risultati migliori, di fronte ad una politica stremata.
Il veto di Vittorio Emanuele alla proclamazione dello stato d’assedio, il 28 ottobre del ’22, è la conferma del discorso di Sansepolcro. Mussolini ci vedeva lungo. Fine della storia.
Resta a questo punto da spiegare una sola altra cosa, vale a dire quale sia l’altra parola che l’italiano ha regalato al vocabolario delle altre lingue indoeuropee.
Questa parola è “pluralismo”, e la rimuginava nel suo studio – proprio mentre Mussolini declamava le sue certezze in quell’auletta degli industriali – un sacerdote con una maschera facciale che ne avrebbe potuto fare un personaggio del cinema di quegli anni. Si chiamava Luigi Sturzo, e proprio in quell’anno, il 1919, lanciava un appello ai liberi e ai forti. Ne sarebbe scaturita l’Italia postfascista.
Mussolini ci vedeva lungo, ma qualcuno forse ci vedeva più lungo di lui.