Quello che sembra un rifiuto non riutilizzabile può avere nuova vita e un nuovo scopo: l’olio vegetale per esempio può diventare biocarburante. Non solo. Ci sono diverse biomasse domestiche o agricole di scarto che possono essere rimesse in circolo. “Ma non devono finire nella pattumiera o nel lavandino – avverte Daniele Bianchi, area manager Eni per le tecnologie e i processi per biocarburanti avanzati – occorre sensibilizzare la popolazione a incrementare ancora di più la raccolta differenziata, introducendo iniziative di economia circolare che facciano crescere i conferimenti di materia riciclabile”.
In Italia, ogni anno, vengono utilizzati in media 25 chilogrammi a testa di olio vegetale, pari un consumo totale di 1,4 tonnellate (dati CONOE 2018). Ma su un residuo non utilizzato di circa 260.000 tonnellate, solo un quarto di questo scarto viene raccolto correttamente.
“L’olio vegetale è una delle biomasse di scarto che Eni utilizza per produrre biodiesel negli impianti di Venezia e Gela – spiega Bianchi –. Grazie ad accordi con consorzi e multiutility Eni è riuscita a garantirsi il 50% degli oli esausti prodotti in Italia, percentuale che corrisponde al 30% degli oli prodotti da ristorazione e attività commerciali”.
Tuttavia la maggior parte degli oli esausti proviene dalle nostre fritture e dagli usi domestici e non viene smaltita in modo corretto. Se aumentasse la raccolta da avviare al riciclo, oltre a salvare l’ambiente da un rifiuto dannoso potrebbe aumentare anche la produzione di biocarburanti sostenibili.
Ma come fa Eni a produrre biodiesel a partire dall’olio di frittura usato? Anzitutto ha convertito due raffinerie di petrolio tradizionale in bioraffinerie: l’impianto di Venezia nel 2014, primo caso al mondo nel suo genere, e successivamente (agosto 2019) quello più grande di Gela, salvaguardando occupazione e know-how e rilanciando il settore della raffinazione. E poi ha ideato un processo brevettato con cui un olio vegetale o un suo equivalente può essere trasformato in biocomponente da miscelare al diesel.
“Il processo proprietario “Ecofining” – risponde Daniele Bianchi – si basa sull’utilizzo dell’idrogeno, in alternativa al metanolo impiegato nella produzione del biodiesel tradizionale, per ottenere la componente HVO (Hydrotreated Vegetable Oil), completamente idrocarburica, di alta qualità e con potere calorifico superiore rispetto al biodiesel tradizionale”. Questa componente è attualmente commercializzata in miscela al 15% con il gasolio fossile, come Eni Diesel +, disponibile presso le stazioni di servizio Eni.
“Fin da prima della pandemia da Covid-19 Eni è impegnata in un piano di ecosostenibilità e lotta ai cambiamenti climatici che arriva al 2050 – ricorda Bianchi – contribuendo al raggiungimento degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (SDGs) fissati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. La strategia prevede la graduale transizione dal petrolio alle fonti rinnovabili e il raggiungimento della neutralità carbonica per tutte le attività del Gruppo al 2040”.
La svolta risale al 2006: “Eni ha dato impulso alla ricerca sulle energie rinnovabili, sulle tecnologie per lo sviluppo sostenibile e la lotta ai cambiamenti climatici – racconta – investendo su biomasse, biocarburanti, energie rinnovabili alternative e ambiente”. Una ricerca che ha appassionato Daniele Bianchi, in Eni dal 1985, una laurea in chimica con indirizzo organico-biologico, e che gli ha permesso di tornare a occuparsi di biochimica fino a diventare “Knowledge Owner”, ruolo con cui Eni valorizza figure autorevoli e con elevate competenze scientifiche su tematiche specifiche e strategiche. Le bioraffinerie di Venezia e Gela sono l’esempio tangibile del percorso intrapreso da Eni in questi anni.
C’è un ulteriore passo che spinge la ricerca in avanti con l’obiettivo di ridurre le emissioni inquinanti nel settore dei trasporti. Gli obblighi normativi europei (Direttiva RED II) da un lato impongono l’uso di carburanti con percentuali crescenti di componenti rinnovabili. Dall’altro promuovono l’uso di scarti o colture che non competono con il settore alimentare e non sottraggono terreno all’agricoltura (caratteristiche che distinguono i biocarburanti avanzati da quelli tradizionali).
Dal 2023, 7 anni prima del limite previsto dalla regolamentazione europea, la produzione delle bioraffinerie Eni farà a meno degli oli di palma. “Accanto agli oli vegetali, agli esausti da cucina e ai grassi animali scarto della lavorazione industriale delle carni – aggiunge Bianchi – per il futuro si cercano oli alternativi: da colture non edibili, prodotte su terreni non destinati ad agricoltura, da scarti agricoli come la paglia, da biomasse legnose come i residui forestali, da biomasse acquatiche come le microalghe e da rifiuti organici da raccolta differenziata domestica”.
È il caso dell’olio estratto dalle microalghe attraverso la biofissazione della CO2 o dell’olio microbico derivante dalla saccarificazione e successiva fermentazione di scarti agricoli e forestali che possono sostituire gli oli vegetali di uso alimentare.
“In un’area semidesertica della Tunisia stiamo sperimentando la coltivazione di ricino come biomassa dedicata all’uso energetico”, dice Bianchi. E che presto potrebbe alimentare le bioraffinerie di Eni.
Allo studio c’è anche un progetto di ricerca per valorizzare i rifiuti da imballaggi in plastica non recuperabili e riciclabili: “l’obiettivo è ricavare idrogeno (da utilizzare in raffineria), metanolo (da utilizzare come componente per carburanti da autotrazione) e nuovi monomeri per la produzione delle plastiche di partenza. La materia prima è in questo caso il plasmix, la frazione eterogena, non riciclabile, dei rifiuti plastici post-consumo”. La circolarità della filiera viene curata in ogni ambito, dall’energia utilizzata per il processo di trasformazione al prodotto finale.
Obiettivo della Direttiva RED II è incrementare entro il 2030 l’utilizzo dei biocarburanti nel settore dei trasporti, dal 10% attuale al 14%. Dal 2014, anno della sua commercializzazione, Eni Diesel +, il carburante con il 15% di componente biologica rinnovabile, è stato testato in diversi ambiti: sugli automezzi di raccolta rifiuti del Gruppo Hera, della multiutility Amiu di Taranto, sugli autobus dell’azienda di traporto pubblico torinese GTT. L’utilizzo sui vaporetti di Venezia ha aperto all’uso navale, sperimentato anche da parte della Marina Militare. Il biocomponente diesel HVO prodotto dalle bioraffinerie Eni viene attualmente miscelato al gasolio, ma, modificando le condizioni operative del processo Ecofining potrà essere miscelato anche al cherosene che alimenta aerei e jet.
“Esistono margini per far crescere il biocomponente HVO come biocarburante – conclude Bianchi – allargandone l’uso, oltre che al trasporto su strada, anche a quello marittimo, aereo e ferroviario”.
Cosa fare quindi dell’olio di frittura per avviarlo nel processo di trasformazione in biocarburante? Non va gettato nel lavandino, nel wc, nel compost oppure in pattumiera: una volta raffreddato va versato in un contenitore robusto e richiudibile, come una bottiglia di plastica. Alla bottiglia possono essere aggiunti anche oli di conservazione degli alimenti (es. sottoli), oli di conservazione dei cibi in scatola (es. tonno), oli e grassi alimentari deteriorati e scaduti (es. burro).
Il contenitore con l’olio può essere conferito nelle discariche, nei centri di raccolta o nelle isole ecologiche comunali, dove il servizio è attivo può essere ritirato a domicilio, oppure ancora può essere smaltito presso alcuni supermercati dove sono attivi degli speciali raccoglitori di oli esausti. Responsabile di organizzare, controllare e di monitorare l’intera filiera è il CONOE, Consorzio nazionale di raccolta e trattamento degli oli e dei grassi vegetali e animali esausti, a cui partecipano sia le aziende produttrici di olio esausto che quelle che si occupano della sua rigenerazione. Nel sistema CONOE circa il 90% degli oli vegetali esausti viene avviato alla produzione di biodiesel.