La necessità di combattere il cambiamento climatico per scongiurare che il pianeta subisca ulteriori e irrimediabili danni continua ad essere una priorità, come è emerso anche dalla Cop25 che si è tenuta a Madrid i primi di dicembre 2019 e come emerge anche oggi, nonostante questo periodo di incertezza. Ed è sempre più imprescindibile che tutti facciano la loro parte.
Come chi, forte dei suoi trent’anni, di una laurea in Ingegneria chimica e di essere nel posto giusto al momento giusto, mette a disposizione il suo sapere per trovare soluzioni, unendo innovazione e buone pratiche: con Michele Stefanucci, giovane ingegnere chimico dell’Unità Tecnologie di Processo, del Centro Ricerche Eni per le Energie Rinnovabili e l’Ambiente di Novara scopriamo cos’è un biocarburante e perché è importante in ottica ambientale.
Michele, cosa pensa di quei giovani, anche suoi coetanei, che protestano perché, a loro dire, è insufficiente l’attenzione di governi e industrie sul cambiamento climatico?
È una bella manifestazione di presa di coscienza. Perché addentrandomi sempre di più nel mondo delle “rinnovabili” e confrontandomi semplicemente con miei amici e conoscenti, mi accorgo che il tema a volte non è conosciuto nei giusti termini. Spesso si hanno a disposizione notizie frammentarie e fuorvianti, anche sui social media, che possono generare interpretazioni errate. Credo che la presa di coscienza che stiamo avendo tutti quanti nei riguardi dell’ambiente, sia fondamentale se vogliamo effettivamente garantirci, tutti, un futuro. Altrimenti, se non facciamo niente, ci sono autorevoli previsioni della comunità scientifica secondo cui la temperatura del pianeta aumenterà anche di 6 o 7 gradi con la conseguente distruzione di interi ecosistemi. E anche le città dove viviamo saranno a rischio, basti pensare a quanto accaduto l’anno scorso a Venezia per l’acqua alta e le piogge intense.
Quando, e come, è arrivato al Centro Ricerche Eni per le Energie Rinnovabili e l’Ambiente di Novara?
Dopo la laurea in Ingegneria Chimica per lo sviluppo sostenibile, a Roma nel 2014, presso l’Università Campus Biomedico, sono arrivato a Milano, ho iniziato come project cost control engineer per sei mesi, e poi ho superato la selezione per entrare al Master Energy Engineering and Operation che si è sviluppato tra Torino e San Donato Milanese. Dopo questo master sono stato assunto in Eni, nel 2015, e ho lavorato per tre anni come ingegnere del petrolio andando anche in Kazakistan per otto mesi. Al mio ritorno, si è presentata l’opportunità di riprendere quelle che erano le mie passioni, ovvero tornare su quanto era stato il mio percorso di laurea e, quindi, verso le energie rinnovabili. Sapevo che in Eni c’è questo centro ricerche di Novara dove sono ormai da oltre un anno.
Qui posso impegnarmi su una delle maggiori tematiche che contribuiranno al nuovo percorso di Eni verso la transizione energetica e la decarbonizzazione. Ho trovato un ambiente lavorativo che mi fa sentire a mio agio e mi permette di dare il mio contributo mettendo a disposizione le conoscenze apprese durante i miei studi e verso cui ho sempre avuto interesse e passione.
Qui, a Novara, è dove hanno inventato il processo di trasformazione chiamato Waste to Fuel (W2F) che permette di trasformare in bio-olio la “frazione organica dei rifiuti solidi urbani”, meglio conosciuto come FORSU: detto così è complicatissimo, ce lo può spiegare più semplicemente?
Certo, ma prima è necessario dire perché vogliamo avere un biocarburante: la comunità internazionale è impegnata alla riduzione delle emissioni per far fronte al surriscaldamento globale e all’inquinamento del pianeta. Dal 2009 esiste inoltre la Direttiva europea RED (Renewable Energy Directive), aggiornata nel 2018 con la RED II, nella quale è stabilito che entro il 2030 dovrà essere raggiunto un tasso di utilizzo delle energie rinnovabili pari al 32% a livello globale. Limitatamente al settore dei trasporti, il fabbisogno energetico dovrà essere soddisfatto per almeno il 14% da fonti rinnovabili, come ad esempio i biocarburanti. Il 3.5% in particolare dovrà essere rappresentato da biocarburanti avanzati. Questo biocarburante deve possedere certi requisiti tra i quali essere appunto bio, ovvero derivante da una fonte biologica, e garantire una riduzione almeno del 65% di emissioni di CO2 rispetto al riferimento fossile. Per essere considerato avanzato dovrà inoltre provenire da biomasse di scarto. In questo contesto si inserisce la strategia di decarbonizzazione di Eni che si è prefissa obiettivi molto sfidanti da raggiungere entro il 2030 impegnando circa tre miliardi di euro in investimenti proprio su un vasto portafoglio di progetti di decarbonizzazione. Tra questi troviamo gli studi e le sperimentazioni su ciò che può effettivamente incidere sulla riduzione delle emissioni utilizzando in maniera virtuosa materie di scarto, soprattutto provenienti dalla “vita urbana” ovvero i rifiuti.
Città, vita urbana, rifiuti: eccoci alla tecnologia Waste to Fuel….
Si va nei centri di raccolta differenziata per prendere la FORSU, ovvero la frazione organica dei rifiuti solidi urbani, che ad oggi non ha sempre un destino virtuoso, in quanto c’è il rischio di disperdere in atmosfera i gas serra derivanti dai naturali processi di decomposizione e, in certi casi, si verificano infiltrazioni nocive di percolato nel terreno. La tecnologia Waste to Fuel permette invece di valorizzare la componente organica della FORSU e di recuperare l’acqua in essa contenuta.
Stiamo parlando di quello che solitamente chiamiamo “umido”?
Sì, esatto! Parliamo dell’umido che, però, non siamo sempre bravi a differenziare correttamente. Infatti per far andare il processo a buon fine, è necessario fare un pretrattamento dell’umido che si prende dai centri di raccolta per togliere altri materiali, come plastica, alluminio o cartonati, finiti insieme all’organico. Se ciascuno di noi facesse una rigorosa raccolta differenziata contribuirebbe concretamente a questo processo di riutilizzo dell’umido per produrre in modo virtuoso biocarburanti avanzati.
Dunque, ammettiamo di avere l’umido perfetto: come inizia il processo?
Si sottopone il rifiuto ad un processo, detto di termoliquefazione, che in sostanza è una replica di quanto avviene, in milioni di anni, per la produzione del petrolio. Infatti i residui organici che rimangono seppelliti per tempi lunghissimi nelle profondità della terra, sotto l’effetto di alte pressioni e temperature si trasformano appunto in petrolio. Il processo che si cerca di replicare è analogo: la frazione organica viene trasformata in poche ore, in particolari condizioni di pressione e temperatura, in un bio-olio. Per capirci, immaginiamo una grande pentola a pressione. Questo tipo di reazione non è una termovalorizzazione perché non c’è combustione: la termoliquefazione lavora in assenza di ossigeno e a temperature più blande rispetto alla termovalorizzazione che prevede, invece, di bruciare il rifiuto. Il prodotto più prezioso dal punto di vista energetico è il bio-olio, ma esistono anche degli altri sottoprodotti, quali ad esempio acqua e biogas.
E con questa acqua e questo biogas ci facciamo qualcosa?
Certo: l’acqua, che rappresenta circa il 70% del FORSU in ingresso, viene opportunamente trattata, così da poter essere recuperata e impiegata nell’irrigazione o per uso industriale. Questo trattamento ci permette inoltre di produrre un biogas dalla componente organica disciolta nella fase acquosa (fondamentalmente derivati di zuccheri e proteine) che è a sua volta utilizzato come fonte di energia rinnovabile.
Possiamo avere una proporzione sulle quantità del processo Waste to Fuel?
Abbiamo iniziato qui a Novara con “un piccolo” impianto pilota che trattava circa 70 chili di FORSU alla volta, in ingresso. Circa 1 anno fa è stato fatto un ulteriore passaggio di scala a 700 chili di FORSU al giorno in ingresso, presso la bioraffineria di Gela. Abbiamo l’obiettivo di portare la tecnologia su scala industriale (per dare un’idea, un impianto da 150mila tonnellate all’anno di FORSU sarebbe in grado di trattare quanto prodotto da un’area urbana di circa 1milione e mezzo di abitanti).
Quanto bio-olio si ricava da una certa quantità di FORSU, denominazione scientifica dell’ “umido” di tutti noi?
La resa del bio-olio ricavato dal Waste to Fuel è variabile in funzione della qualità della FORSU. Possiamo dire approssimativamente che per 100 chili di FORSU, oltre ai 70 chili di acqua, otteniamo circa 15 chili di bio-olio. Come si può vedere un recupero significativo della materia di partenza.
Questo bio-olio, intanto, è un buon prodotto che ha un basso contenuto di zolfo, cosa importante per le specifiche restrizioni sulle emissioni dei carburanti nei prossimi anni, un potere calorifico pari a quello di un olio combustibile fossile, e un’elevata stabilità chimica. Inoltre, questo bio-olio è perfettamente allineato con i requisiti di biocarburtante avanzato, riducendo l’emissione di gas serra di oltre il 70% rispetto al riferimento fossile e provenendo da materiale di scarto. L’opzione di utilizzo attuale, e ottimale, è l’impiego nella trazione navale in blending, cioè miscelato con carburante di origine fossile ma è possibile, tramite ulteriori lavorazioni in upgrading, adottarne l’uso anche nella trazione di autoveicoli. Quest’ultima è un obiettivo sul quale stiamo lavorando.
Ma come nasce l’idea di un biocarburante, l’elaborazione, il suo sviluppo…?
L’argomento è piuttosto vasto ma, volendolo semplificare all’osso, possiamo dire che studiamo diverse biomasse di scarto e individuiamo soluzioni tecnologiche per trasformarle in prodotti. Per esempio, stiamo sviluppando anche una produzione di olio di origine microbica derivante da scarti agricoli di natura lignocellulosica. Questi microrganismi sono alimentati con la biomassa e ingrassano producendo un olio con caratteristiche assimilabili ad un olio vegetale. Con ulteriori lavorazioni può diventare un biocarburante avanzato per una mobilità sempre più sostenibile.
Michele ci può togliere una curiosità? Come viene riciclato l’olio esausto che proviene dalle nostre case e perché ciascuno di noi può, e deve, fare la propria parte?
Anche questo olio può entrare in un processo virtuoso di economia circolare e venire riutilizzato in maniera sostenibile producendo dei biocarburanti. Ma dobbiamo raccogliere l’olio che usiamo per friggere le patatine, il pesce o le zeppole perché se lo buttiamo negli scarichi di bagno e cucina arriva nelle fogne, finisce in mare e inquina. Raccogliere gli oli esausti domestici significa cambiare un comportamento sbagliato. Lo facciamo anche in Eni e proprio qui a Novara abbiamo appena mandato alla trasformazione in biocarburante il primo bidone da 200 litri riempito con l’olio usato proveniente dalle cucine domestiche dei ricercatori del Centro. I buoni comportamenti portano vantaggio non solo all’ambiente ma anche a noi stessi.