La frase che equivale al concetto del “chi insiste a lungo (o fino alla fine) ce la fa, ottiene il risultato desiderato” in Australia si dice “fai il Bradbury”. Un modo di dire locale, che è entrato nel linguaggio comune dell’emisfero Sud di lingua inglese grazie all’impresa di un atleta: Steven Bradbury, oro nello short track 1.000 metri ai Giochi del 2002 a Salt Lake City (Usa). Il video della sua vittoria è uno di quelli diventati immediatamente virali sulle neonate, all’epoca, piattaforme del web.
Negli ultimi 4 secondi di gara succede il finimondo: i favoriti per le medaglie cadono all’ultima curva nel tentativo di superarsi e Steven, che viaggia nelle retrovie, si trova a tagliare per primo il traguardo a braccia levate. L’uomo giusto, al momento giusto, nella gara della vita? Forse è così, ma la sua storia parte da molto prima e sembra la sceneggiatura per un film. Con lieto fine: la medaglia d’oro che mancava all’Australia.
Ghiaccio, sudore e sangue
Riavvolgiamo il nastro e partiamo dal 1973 a Sydney, anno di nascita del nostro campione olimpico. Un atleta controcorrente che sceglie uno sport del ghiaccio e non il rugby, il football australiano o il nuoto. La specialità dello short track si svolge nei palazzetti da hockey, su pista corta ed è altamente adrenalinica per via della velocità e imprevedibilità degli sprint. Da atleta junior promette bene e potrebbe essere il primo atleta australiano a vincere una medaglia alle Olimpiadi invernali, visto che il medagliere aussie dei Giochi della neve e ghiaccio è completamente a secco.
Steven inizia la sua avventura sotto la bandiera dei Cinque cerchi ad Albertville nel 1992 dopo aver conquistato un titolo mondiale nel 1991. A Lillehammer nel 1994 arriva la prima medaglia: un bronzo nella staffetta, la prima medaglia assoluta per l’Australia ai Giochi invernali. Rotto il ghiaccio – proprio il caso di dirlo – la sua carriera sembrava destinata a un crescendo. Con i compagni di squadra e anche individualmente.
Chi resta in piedi, vince
Nel 1995 arriva il primo infortunio ed è uno di quelli che lasciano il segno: in una caduta la lama del pattino di un avversario involontariamente lo ferisce alla gamba e recide muscolo e una vena. Perde una grande quantità di sangue e gli vengono cuciti sulla gamba 100 punti di sutura. Lungo stop e riabilitazione. Ai Giochi di Nagano 1998 non arrivano medaglie per lui, ma Steven non demorde e punta a Salt Lake City 2002. Ma nel 2000 arriva un altro infortunio, questa volta in allenamento: rottura di due vertebre del collo. Stavolta la sua carriera sembra arrivata al capolinea.
Il 28enne con caparbietà si rimette in piedi, infila i pattini e torna alle gare. Ma non è più giovane, i fantasmi degli infortuni lo rallentano e gli avversari vanno molto veloci. Ai Giochi del 2002 si qualifica alla semifinale per il rotto della cuffia grazie alla squalifica del campione del mondo in carica, il canadese Marc Gagnon. In semifinale iniziano le cadute in pista e così, partendo da sfavorito, si ritrova in finale con l’ultimo tempo.
A questo punto Bradbury decide di usare l’esperienza nata dal dolore degli infortuni del passato: evita il gruppo di testa e riduce così al minimo il rischio di cadute. A inizio della gara si mantiene a distanza di sicurezza dagli altri quattro finalisti, ultimo tra quelli che si contendono una medaglia. Ma all’ultima curva tutto cambia in 4 secondi: due degli atleti in testa si scontrarono cercando di prendere la miglior posizione per lo sprint finale e causano la caduta di tutti i primi quattro. Steven evita la collisione e li supera prendendosi così la medaglia d’oro dei 1.000 metri nello short track. La prima in assoluto per l’Australia ai Giochi invernali.
“Accetto questa medaglia d'oro. Non per i 90 secondi della gara, ma per i 14 anni di duro lavoro”, dice dopo aver ricevuto il premio come ricompensa per gli sforzi fatti durante tutta la sua carriera. E annuncia il ritiro dalle gare. La sua impresa entusiasma e commuove l’Australia, che gli dedica un francobollo e la sua storia di resilienza ispira un modo di dire in uso nel Paese: “do a Bradbury”, che tradotto suona come “fai il Bradbury” e si utilizza per indicare la ricerca con convinzione di un successo tanto clamoroso quanto ormai insperato. Perché alla fine tutto il mondo è paese, ma sempre - come invece diciamo dalle nostre parti - chi la dura la vince.