AGI - "La violenza contro le donne è in aumento come strumento di guerra, ma la riduzione dei fondi significa meno aiuto per le sopravvissute allo stupro: servizi sanitari salvavita, supporto psicologico, case rifugio. Le donne sono quelle che pagano il prezzo più alto dei tagli agli aiuti umanitari. Inaccettabile". A parlare è l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, in occasione della Giornata internazionale per le donne.
Le donne palestinesi, sia a Gaza che in Cisgiordania, “sono state sottoposte quotidianamente a brutali bombardamenti e massacri, a sfollamenti e deportazioni, ad arresti e torture in prigione e alla negazione dei loro diritti più basilari”. La denuncia arriva oggi da Hamas, il gruppo islamista autore dell’attacco terroristico del 7 ottobre contro Israele, in un appello rivolto alla comunità internazionale, alle istituzioni politiche e umanitarie, a “proteggere le donne palestinesi dai crimini sistematici dell'occupazione”. Secondo un bilancio, sicuramente molto parziale, più di 12.000 donne sono state uccise nell'offensiva israeliana nella Striscia di Gaza. Hamas – che non è proprio un esempio in materia di rispetto dei diritti umani –deplora anche le “torture fisiche e psicologiche” subite dalle palestinesi imprigionate in Israele. La loro situazione “rivela i due pesi e le due misure dell'amministrazione statunitense e di alcuni Paesi occidentali nei confronti dei nostri prigionieri uomini e donne”, ha criticato il gruppo armato palestinese. Le organizzazioni dei prigionieri palestinesi hanno riferito che ci sono ancora almeno 21 donne palestinesi nelle carceri israeliane, tra cui una ragazza di 12 anni, una donna incinta, una studentessa universitaria e una malata di cancro. Di queste 21, 17 non sono state accusate di alcun reato e due sono in “detenzione amministrativa”, una formula usata dalle autorità israeliane per rinchiudere a tempo indeterminato i palestinesi nella Cisgiordania occupata, sotto il nome di “detenzione amministrativa”. Il messaggio celebra anche le donne palestinesi per la loro “leggendaria fermezza, perseveranza e volontà” e per aver “cresciuto le nuove generazioni”. Infine, il gruppo islamista ringrazia le “donne libere di tutto il mondo” che hanno preso posizione e manifestato contro la guerra e per “l'indipendenza e la libertà” della Palestina.
Nella Repubblica islamica dell'Iran, un altro paese particolarmente repressivo nei confronti della sua popolazione femminile, le donne devono affrontare una doppia repressione: quella subita dagli iraniani in generale e quella che ricade su di loro in quanto donne. Non è un caso che le principali attiviste del Paese persiano siano donne, come la vincitrice del premio Nobel per la pace Narges Mohammadi, l'avvocatessa Nasrin Sotudeh, Shirin Ebadi, Atena Daemi o Sepideh Qolian, oltre a una moltitudine di iraniane che ogni giorno rifiutano di indossare il velo islamico obbligatorio. “Fin dal primo giorno, la Repubblica islamica si è posizionata contro le donne e le ha represse. Ha istituzionalizzato quella repressione", ha dichiarato all’agenzia Efe Mohammadi, libera dallo scorso dicembre per motivi di salute dopo essere stata imprigionata per l'ultima volta nel 2021. L'attivista 52enne menziona le leggi approvate in Parlamento dopo il trionfo della Rivoluzione islamica nel 1979 e che stabiliscono che le donne sposate hanno bisogno del permesso del marito per studiare, lavorare o avere un passaporto, per esempio. Per Mohammadi, era quindi quasi inevitabile che le donne si ribellassero a “un sistema politico fondamentalmente antifemminista”, come è accaduto nelle proteste “donne, vita e libertà” scatenate dalla morte di Mahsa Amini, dopo essere stata arrestata per non aver indossato correttamente il velo nel 2022. Un movimento che si è placato dopo una repressione statale che ha causato almeno 500 morti.
In realtà la lotta continua con tutte le donne che ora si rifiutano di indossare l’hijab, che va ben oltre un semplice pezzo di stoffa. "Credo che la lotta contro l'obbligo dell'hijab non riguardi solo l'abolizione dell'obbligo, ma anche il raggiungimento delle libertà fondamentali e della dignità umana", afferma Mohammadi, arrestata tredici volte e condannata nove. Una lotta che comporta gravi pericoli, come dimostrano le condanne a morte nel 2024 dell'attivista Verisheh Moradi, della sindacalista Sharifeh Mohammadi e dell'assistente sociale Pakhshan Azizi, nei primi casi in 14 anni in cui delle donne vengono condannate alla pena capitale per il loro attivismo. Condanne a morte, tortura bianca in prigione che sono delle “vendette chiare ed evidenti”, sottolinea l’avvocatessa Nasrin Sotudeh, secondo cui è stata la repressione subita dalle donne a portarle a essere "più coraggiose nel riconquistare i loro diritti fondamentali". Indica il controllo del corpo delle donne come punto di partenza della discriminazione: “Posso dire con certezza che l'origine di ogni disuguaglianza è iniziata con il controllo del corpo delle donne per trasformarle in schiave", ha affermato - riferendosi al velo - Sotudeh, insignita nel 2012 del Premio Sakharov del Parlamento europeo per il suo lavoro in difesa dei diritti umani. L'avvocatessa 61enne ha pagato a caro prezzo il suo attivismo, trascorrendo lunghi periodi dietro le sbarre per aver difeso le donne arrestate per essersi tolte il velo in pubblico. L'ultima condanna è stata emessa nel 2023, dopo aver partecipato al funerale di Armita Gravand, una giovane donna morta dopo essere stata presumibilmente aggredita perché non indossava l'hijab nella metropolitana di Teheran. Per Sotoudeh, l'unica opzione rimasta alle donne iraniane è protestare civilmente e rivendicare i propri diritti nelle piazze, perché il sistema politico iraniano non ha alcuna intenzione di riformarsi. È proprio ciò che fanno molte donne per le strade di Teheran, semplicemente non indossando il velo, simbolo di disobbedienza civile contro la Repubblica islamica dopo la morte di Amini.
Se la passano ancora peggio, se possibile, le afghane, che vivono, o meglio sopravvivono sotto il regime talebano, che attua un vero e proprio apartheid di genere, definito come tale dall’Onu. L’Unicef ha voluto dedicare idealmente l’8 marzo alle bambine dell’Afghanistan, Paese in cui alle ragazze sopra i 12 anni “viene impedito di continuare il percorso di studi, congelando di fatto il loro futuro. L'istruzione garantisce a queste bambine opportunità di crescita e sviluppo e le protegge da rischi, pericoli e violazioni dei loro diritti, come i matrimoni precoci, una pratica ancora diffusa nel paese", ha dichiarato Carmela Pace, presidente di Unicef Italia. Nel mondo 122 milioni di ragazze rimangono fuori dalla scuola a livello globale; quasi 4 ragazze e giovani donne su 10 a livello globale non completano la scuola secondaria superiore, circa 50 milioni di ragazze e giovani donne oggi non sono in grado di leggere o scrivere una semplice frase. Si stima che in Afghanistan 3,7 milioni di bambini non frequentano la scuola, il 60% dei quali sono bambine.
In una dichiarazione della missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), alle autorità talebane de facto viene chiesto di revocare le restrizioni che privano le donne dei loro diritti fondamentali e agli stati membri dell'organizzazione di tradurre in azioni le loro espressioni di solidarietà nei confronti delle afghane. L'Onu ha sottolineato che l'esclusione sistematica delle donne afghane nell'istruzione, nell'occupazione e nella vita pubblica "costituisce una violazione dei diritti umani e un ostacolo al progresso dell'Afghanistan, aggravando la povertà e l'isolamento di milioni di persone". "È essenziale mettere (le donne afghane) al centro delle soluzioni alle sfide attuali ed emergenti. Ripristinare i loro diritti all'apprendimento e al lavoro trasformerebbe le loro vite, le loro comunità e il futuro dell'Afghanistan a beneficio di tutti", ha affermato Roza Otunbayeva, capo della missione Onu in Afghanistan. Le attiviste per i diritti delle donne afghane hanno nuovamente espresso il loro disappunto per la situazione in cui versano le donne in Afghanistan.
"L'8 marzo, riconosciuto dalle Nazioni Unite come Giornata internazionale della donna, è un momento per riflettere sulle lotte e sui sacrifici di coloro che hanno combattuto per la nostra libertà. Questa giornata non è solo una celebrazione, è una giornata di resistenza", ha detto all'agenzia Efe l'attivista Mina Rafiq. "Oggi in Afghanistan, stiamo assistendo alla dura realtà in cui tutte le persone, in particolare le donne, sopportano alcune delle peggiori condizioni di vita. Alle donne vengono negate anche le libertà più basilari: non sanno se ridere o piangere per esprimere il loro dolore e le loro speranze in questa situazione", ha testimoniato Rafiq, avvertendo che "finché ci sarà una donna prigioniera, nessuna donna sarà veramente libera". In Afghanistan, le proteste per l'8 marzo si limitano ai social media, dove gli attivisti solitamente appaiono con il volto coperto per evitare rappresaglie da parte dei fondamentalisti.
La comunità internazionale ha ripetutamente condannato la situazione delle donne nell'Afghanistan dei talebani, dove le loro libertà sono sempre più limitate e i loro diritti sempre minori. Nell'agosto dell'anno scorso, i talebani hanno vietato il suono della voce femminile approvando una legge sulla propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, attuando così la loro rigida interpretazione della legge islamica. Di recente hanno emesso un ordine per far murare le finestre e stanno collocando 90 mila telecamere di sorveglianza a Kabul, ufficialmente per lottare contro la criminalità comune. Queste ultime restrizioni si aggiungono a un lungo elenco di privazioni e divieti per donne e ragazze: niente diritto allo studio dopo i 12 anni di età, niente sport, niente passeggiata al parco, chiusura dei centri estetici, limitazioni stringenti nelle attività lavorative autorizzate e nessuna uscita senza un accompagnatore maschile adulto, il mahram.
A gravare ulteriormente sui diritti di donne e ragazze in Afghanistan, è la sospensione degli aiuti umanitari di Usaid, mentre dal Paese asiatico giungono frequenti notizie di chiusure di Ong e associazioni della società civile, che in un contesto di crisi economica, povertà, fame e disoccupazione, ma soprattutto di apartheid di genere, sono l'ultima ancora di salvezza per la popolazione, in primis per le donne di cui molte sono capofamiglia, con più figli a carico, per far fronte all'emergenza umanitaria e provare a costruire un futuro diverso e di speranza. “Siamo riusciti a salvare la piccola Deeba, figlia di Munisa, da un matrimonio precoce. Ci sono ancora molte storie che possiamo cambiare. Proprio in questo momento dobbiamo rimanere in Afghanistan e proseguire tutte le nostre attività”, riferisce Nove Caring Humans, ong italiana attiva da 13 anni nel Paese asiatico, una delle poche ancora operative nell’emirato talebano. In risposta a tutte queste emergenze e proprio per il fatto che la crisi afghana sia quasi del tutto uscita dai radar dell’informazione mainstream e dall’agenda della comunità internazionale, Nove ha lanciato un apposito “Fondo Emergenza Donne Afghane” (FEDA – www.novecaringhumans.org/feda), oltre a intervenire con progetti mirati di assistenza emergenziale e sviluppo in cinque province - tra cui due orfanotrofi, uno per bambini e uno per bimbe, a Kapisa, con il supporto di Otb Foudation, anch’essa italiana - in collaborazione con diversi partner e grazie alla generosità di molti donatori, italiani e stranieri.