H a destato un certo clamore l’elenco della crisi profonda in cui versano alcuni importanti ristoranti romani pubblicato dal sito Puntarella Rossa, tra chiusure avvenute, imminenti, possibili e diversi ridimensionamenti di ambizioni e spazi. Tra tutti, “Romeo e Giulietta” di Cristina Bowerman a Testaccio, uno spazio gigantesco ai piedi dell’Aventino in piazza dell’Emporio, che, al di là delle giornate di esordio non sembra mai esser decollato stabilmente. Ma tanto è bastato per chiedersi se il format dell’alta cucina stia tramontando e se sia solo il segnale dell’avvio di una crisi di settore. Quanto irreversibile, però, è ancora tutto da stabilire.
Un Paese con sempre meno ristoranti
I dati pubblicati di recente da Fipe, la Federazione dei pubblici esercenti, dice che il settore della ristorazione però è in crescita, con 336 mila imprese nel 2019, anche se “l’elevato turn over resta un’emergenza” avverte una nota dell’Ufficio studi Fipe. Perché se è pur vero che nell’arco di un decennio la spesa degli italiani per mangiar fuori casa è aumentata di ben 4,9 miliardi di euro (quella in casa si è invece ridotta di 8,6 miliardi) è altrettanto vero che nel 2018 in Italia 7.412 sono stati i ristoranti che hanno avviato l’attività ma ben 13.742 sono stati anche quelli l’hanno cessata, con una perdita secca di 6.330 imprese di ristorazione.
Un dato più o meno analogo l’ha registrato il 2017, quando il saldo negativo tra imprese aperte e chiuse nella ristorazione è stato di 6.051 unità. Cifre che dicono che nel nostro Paese ci sono sempre meno ristoranti, con un tasso di turn over pari a un -3,4%, che ci dice – ancora – che il settore sta perdendo 3,4 imprese ogni 100 attive.
Eppure, come si può constatare anche ad occhio nudo, i ristoranti sono sempre pieni e il settore della ristorazione in sé è anche uno dei pochi in cui la crisi che ci trasciniamo ormai dal 2008, dodici anni, non ha influito più di tanto. E allora le chiusure? Sono dovute principalmente a una scarsa capacità imprenditoriale da parte dei ristoratori italiani, in particolare per quel che concerne le carenze circa la capacità e le conoscenze di tecniche come il management, il marketing, la gestione oculata dei flussi di cassa.
La concorrenza degli alberghi
“Rispetto alla domanda la crisi non c’è, non si vede, c’è in vece sul lato dell’offerta” dice all’Agi Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio studi Fipe. Il motivo, dunque, è da attribuirsi a “importanti costi di gestione in un contesto ad altissima competizione”. Oltre al fatto, spiega ancora Sbraga, che talune amministrazioni pubbliche “hanno favorito l’avvio di ristoranti aperti a tutti negli alberghi, in deroga alle norme che dicono che in alcune zone i ristoranti non possono aprire, incidendo così negativamente su una ristorazione di un certo livello”.
Pranzare e cenare nei ristoranti dei grandi alberghi, spesso un concentrato di chef stellati, va molto di moda, “ma si tratta di una tendenza e di una competizione non equilibrata, poco seria”, s’inserisce Sbraga, “perché questi ristoranti si avvalgono di una struttura forte alle spalle, che data dall’albergo, e il loro scopo principale è di attirare clienti per il pernottamento, quindi sono optional, più che doversi reggere autonomamente e in maniera autosufficiente”. Sono degli attrattori di turismo. E infatti i recenti dati Istat dicono che turismo e ristorazione ci hanno messo al riparo e salvati dalla deflazione.
Il caso Roma
Poi, però, nell’andamento del settore in sé e rimandando alla segnalazione di Puntarella Rossa, esiste anche un “caso Roma”. Che è un caso a parte, perché qui il mercato della ristorazione di alta qualità è più difficile e complicato. “c’è meno spinta”. Perché i consumi alimentari dei romani non sono quelli tipici metropolitani. “Il livello della Capitale è molto diverso da quello di Milano” osserva il capo dell’Ufficio studi Fipe. Nel senso che è “più promettente, di dimensione internazionale e di status”.
Roma è in declino? “Qualche problemino ce l’ha”, risponde Sbraga. “Qui la ristorazione di livello incontra più difficoltà che a Milano. È più proiettata su un livello normale, il livello che funziona è ancora quello della trattoria”. Poi Roma è anche complicata perché semmai “è più facile fare una ristorazione informale, non impegnativa. In pochi metri quadrati si fa tutto ma questo porta anche ad una dequalificazione della città, basta dare un’occhiata alle condizioni del centro storico…” dice il dirigente della Federazione pubblici esercizi. Come dire? A Roma basta un buco. A volte non ci sono nemmeno i servizi igienici adeguati. La sala e il servizio in sala sono quel che sono… etc, etc. Torna un vecchio tema, che si trascina dalla fine degli anni Ottanta: la generale inadeguatezza del servizio di ristorazione della Capitale.
Ma poi, cambiano i ritmi di vita, i luoghi di consumo, gli stili alimentari, ma un punto fermo rimane: la passione degli italiani per ristorante e buona cucina non passa. Anzi, se si guarda ai dati 2019 si può notare come la ristorazione stia conoscendo una stagione molto dinamica e in evoluzione. Gli italiani investono di più sul cibo, lo fanno in maniera più mirata, ricercando la miglior qualità dei prodotti locali e un servizio attento alla sostenibilità ambientale. In genere, dappertutto. Tranne che a Roma, città in declino.