C arlo Verdone l’aveva ipotizzato nel film “L’amore è eterno finchè dura” e l’aveva chiamata la “teoria degli istrici”: insieme ma non troppo vicini. Insomma, la domanda è: la convivenza è l’idea migliore per far funzionare una relazione?
Lucy Beresford, psicoterapeuta, conduttrice, ma soprattutto autrice del libro “Happy Relationships”, analizza da vicino la situazione. Secondo lei le relazioni LAT (Living apart together) permettono “un equilibrio tra indipendenza e impegno emotivo”. Ma è proprio l’indipendenza il problema, secondo la Beresford la trappola è dietro l’angolo, convivere non significa essere salvati, o perlomeno non esserlo regolarmente.
“Emotivamente, - scrive l’autrice - dobbiamo essere resilienti. È l'opposto della co-dipendenza e del collasso con il tuo partner. Vivere insieme può rendere più facile trovare lo spazio di respiro in una relazione, ma sostenere una rete di supporto e perseguire interessi esterni può creare lo stesso senso di spazio e individuazione in una dinamica convivente”.
Insomma chi convive con il proprio partner va bene, chi non ci convive va bene lo stesso. Beresford pensa anche che gli scenari LAT mostrino un sano realismo lontano dalla tradizionale “fiaba di matrice amorosa”, inutile comportarsi come fossimo protagonisti di una commedia amorosa anni ’90, la realtà è tutt’altra ed è bene esserne consapevoli.
Contro la Bereford si schiera Simon Duncan, professore emerito di politica sociale all'Università di Bradford, che riguardo le relazioni LAT ha scritto “Reinventare le coppie”, che va molto più cauto riguardo definizioni definitive circa il cosa va e non va nella convivenza, più che altro cosa è giusto e cosa sbagliato. “Spesso – scrive Duncan - la scelta di vivere separati può essere una "preferenza negativa", una scelta per preservare la relazione quando vivere insieme è insopportabile”.