"Per tutelare i più piccoli sui social serve imparare il loro linguaggio" 
"Per tutelare i più piccoli sui social serve imparare il loro linguaggio" 

"Per tutelare i più piccoli sui social serve imparare il loro linguaggio"

 app usate da adolescenti
 (afp) -  app usate da adolescenti
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L'hanno sorpresa i risultati dell'indagine?

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"I dati dell’indagine non mi sorprendono. Evidenziano d’altronde un clamoroso gap culturale fra genitori e figli, un problema proprio di grammatica e di consapevolezza delle possibilità dello strumento. I genitori si fermano all’opportunità di acquistare o permettere uno smartphone. Sono inchiodati all’oggetto, non ai servizi a cui dà accesso. Insomma, non si sporcano le mani, non entrano nei meandri delle app su cui i figli passano la stragrande maggioranza del tempo. Un genitore, nel nostro libro, si diceva per esempio stupito che su YouTube suo figlio potesse disporre di un “canale”. Pensava che i canali fossero un’esclusiva della vecchia televisione. Come si capisce, è una questione di competenze. Come proviamo nel nostro libro, le applicazioni sono ormai sinonimo di internet così che anche lo smartphone è sinonimo di rete. Difficile tutelare i propri figli senza inoltrarsi almeno un po’ nelle logiche di quelle piattaforme".

Come pensa si possano evitare i rischi per i più piccoli?

"Le indicazioni sono molte. Anzitutto occorre tenere presente che non è obbligatorio che un ragazzino possegga uno smartphone o dei profili sui social network. Specialmente sotto i 10 anni: fino a quell’età i piccoli conoscono il mondo giocando e le piattaforme sociali non sono esattamente il posto più adeguato per giocare. Ci rendiamo ovviamente conto che invece nella fascia considerata dall’indagine diventa durissimo sottrarre uno strumento assoluto di socialità, da cui ormai passa la costruzione dell’identità dei teenager. La bacheca ha d’altronde sostituito l’archetipo psicanalitico dello stadio dello specchio di cui parlava Jacques Lacan: Facebook, Instagram, Snapchat, Musical.ly concedono l’illusione di esistere al di fuori di se stessi, di poter costruire un altro da sé. A parte insegnare a proteggere la riservatezza, a manovrare le impostazioni che le piattaforme mettono a disposizione, a fornire l’esempio (se anche papà e mamma stanno tutto il giorno attaccati a Facebook o pubblicano gigabyte di foto del fratellino appena nato, diventa difficile ergersi a maestri di vita e stile) occorre un patto con i propri figli: i temi della vita digitale devono diventare temi casalinghi, di cui discutere insieme il più possibile".

Com'è il mondo degli adolescenti che raccontate nel vostro libro?

"Un mondo piuttosto contraddittorio. In cui i bambini e i ragazzi si appropriano delle piattaforme che più li interessano con assoluta dimestichezza, mentendo sulla propria età e scatenando spesso un livello incredibile di creatività (penso ancora a Musical.ly) ma di cui al contempo sembrano presagire alcuni rischi. Senza il supporto di una guida, però, finiscono spesso col perdersi. Gran parte di loro, per esempio, non protegge la privacy degli account e dice di non essersi mai posto il problema della sicurezza della propria presenza online. In gran parte non si rendono conto di partecipare, anche indirettamente, a far circolare contenuti che li rendono corresponsabili di cyberbullismo. Si ritrovano spesso appesantiti da materiali pubblicati in passato, quando erano piccoli, dai genitori (il cosiddetto sharenting). Le piattaforme, d’altronde, sanno che milioni di under 13 si muovono fra le loro pagine ma fanno poco per “bonificare” la composizione dell’utenza. E anche nel caso degli adolescenti, sfoggiano regole di moderazione contraddittorie. Basti pensare a cosa è venuto alla luce con i Facebook Files rispetto ai minori".
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