Gli sparatutto di oggi hanno troppe armi. Sembrerebbe la critica di un genitore preoccupato per i videogiochi che vede usare al figlio. E invece arriva da un nome leggendario dell'industria videoludica: John Romero.
L'autore che lavorando con ID Software ha contribuito a creare il genere dei “First person shooter” (o Fps o, in italiano, sparatutto in prima persona), dietro capolavori come Wolfenstein 3D, Doom e Quake, proprio non riesce ad appassionarsi agli ultimi titoli “eredi” del filone da lui inaugurato e più in generale per i vari “shooter”.
In un dialogo con il giornale inglese Guardian, Romero confessa una certa delusione per i vari Call of Duty o Battlefield, simboli dell'ultima generazione di Fps. La prima e più profonda critica sembra per certi aspetti filosofica: i nuovi videogame con la loro abbondanza di armi da usare si sono immersi fin troppo nella logica del blockbuster consumista e hanno sostituito la ricerca del bilanciamento e della cura con la quantità.
"Preferirei avere meno cose con più significato, rispetto ad avere un milione di cose con cui non ti identifichi", spiega Romero. "Preferirei passare più tempo con una pistola e assicurarmi che il design della pistola sia davvero profondo, che ci sono molte cose interessanti che impari a riguardo". La critica tocca in generale tutto il sistema del “loot”, i bottini che i gamer ottengono dopo aver sconfitto un nemico e su cui si fondano intere esperienze videoludiche. Una critica non troppo velata a giochi come Fortnite.
"In Doom era davvero importante che ogni volta che ottenessi una nuova arma, non si rendessero mai inutili le armi precedenti. Questa era una caratteristica fondamentale nel design. Aggiungere una cosa nuova non doveva annullare quello che c'era prima. Quando ottenevi la mitragliatrice rotante, la pistola non diventava inutile. Come? Si bilanciava la potenza con la quantità di munizioni necessarie e la precisione: la pistola mangia meno munizioni ed è estremamente precisa da lontano".
Un altro elemento trattato da Romero è quello dei luoghi segreti nascosti nei giochi. Secondo il co-creatore di Doom, le attuali produzioni hanno rinunciato alle “stanze segrete” che nei titoli della vecchia scuola invece abbondavano. Innanzitutto per ragioni di programmazione, sempre più complessa con l'affinarsi delle tecnologie.
"In Doom era facile creare stanze segrete. Bastava disegnare alcune linee e mettere una porta. Meno di un minuto. Già con Quake era necessario molto più lavoro, perché ogni singola stanza era composta da sei piani: devi mettere il pavimento, la parete posteriore, il soffitto. Devi aggiungere la luce e assicurarti che sici a la giusta luminosità, che colpisca ogni angolo della stanza. Ci è voluto molto più lavoro per costruire i livelli di Quake, e da lì la situazione è peggiorata".
C'è poi l'elemento costi: se una volta un videogame poteva essere sviluppato da team di poche persone, oggi i titoli di prima fascia richiedono anni di lavoro di squadre composte da centinaia di professionisti e investimenti milionari. "Le persone semplicemente non vogliono fare aree segrete, perché quante persone le vedranno?", chiosa Romero che poi apre anche a un altro dato, la sempre maggiore fedeltà alla realtà dei videogiochi di questo genere (vedi appunto Call of Duty), che rendono poco coerenti stanze segrete e simili. Ma che impoveriscono anche la creatività dei titoli. "Ogni sparatutto si svolge nel mondo, da qualche parte. Non c'è niente di pazzo, non è come andare a Xen in Half-Life".
Per Romero rimane però accesa la speranza di poter tornare a creare qualcosa di coerente con la lezione del passato, come già dimostrano alcuni titoli della scena indipendente e chiari tributi alle sue opere (tra cui Dusk e Amid Evil).
Senza dimenticare i “modder” che, ad oltre 26 anni dall'uscita del primo Doom, continuano a creare livelli originali di quel titolo. Lo stesso Romero qualche mese fa ha pubblicato “Sigil” una corposa espansione del primo Doom. Un'operazione nostalgia per tornare a calcare i sanguinari corridoi di quel gioco che cambiò tutto.