Non corre, non si smarca, non difende, non salta, è davvero troppo statico e prevedibile. Ma è infallibile ai liberi e da tre punti. Come del resto molti famosi cecchini della pallacanestro a qualsiasi latitudine, a cominciare dal campionato italiano. Per cui, anche per “CUE” varrebbe l’aurea regola: “Dà la palla allo straniero”. Che sia slavo o americano. Lo pagano di più proprio per quello.
Così, anche l’ultimo implacabile tiratore “made in Japan” è chiamato a prendersi le responsabilità decisive e a infilare la retina, e lo fa con estrema professionalità, senza mai reagire a una marcatura asfissiante o a un fallo, senza mai accusare stress e stanchezza. Non si può sottilizzare troppo sul suo aspetto un po’ meccanico e impersonale, sulla mancanza di comunicativa e sui sinistri rumori che emette dal profondo del suo io o dalle giunture un po’ legnose. Soprassediamo, come facciamo spesso sui tanti difetti del campione, umanissimo d’aspetto, che però non è quasi mai davvero umano. Anche lui, anche CUE3 migliorerà, non in palestra, ma in laboratorio. Sottogliezze: in fondo gli ingegneri che si occupano di lui valgono allenatori, fisioterapisti, massaggiatori, preparatori atletici, psicologi e chiroterapeuti che si occupano degli atleti. Perciò il robot cecchino brevettato dalla Toyota merita attenzione, solidarietà e fiducia. A dispetto delle preoccupazioni dei ricchi e famosi divi dell’Nba che temono di perdere presto il posto, come succede ogni giorni agli operai beffati dai robot alla catena di montaggio delle nostre industrie.
Nella prima esibizione, Cue 3, che è alto 1.85, ha realizzato un bel 5/8 da tre, dimostrando i grandi passi avanti fatti dall’uomo anche in questo campo. Senza la calotta bianca da “iRobot” degli Apple Store e rinunciando al tentativo di dargli sembianze umane, esalta piuttosto i sensori sul tronco che creano una mappa 3D nelle immediate vicinanze, così da calcolare, distanza ed angolazione ideali rispetto al canestro, e quindi tarare il tiro al meglio.
Macchine, fredde macchine? Beh, quante volte nel notare la fredda sistematicità di tiro di certi giocatori, abbiamo pensato: “È una macchina?”. Evidentemente, per ottenere certi rendimenti, ed eccellere sempre, dev’essere proprio così. Il team
Alvark Tokyo non ha fatto altro che elaborare le caratteristiche ideali di un tiratore di basket e metterle in pratica. E poi hanno applaudito il loro prodotto che batteva i professionisti. Ora devono lavorare sull’evoluzione atletica. Ma scusate, non è stato così anche per gli uomini? Non siamo forse partiti dal campione di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, alto e sgraziato che metteva solo la palla dentro il cesto, ai 2.15 che corrono e saltano come i colleghi di 1.80?